[**12] – Non è facile iniziare a scrivere dell’ultimo film di Mazzacurati, perché il giudizio che in genere cerca di essere definitivo o il meno ambiguo possibile, in questo caso fatica a trovare la sua strada. Ci troviamo infatti di fronte a un’opera disomogenea, a tratti caotica, con una latitanza del personaggio principale – Gianni Dubois, interpretato da Silvio Orlando, regista cinquantenne in crisi di idee – che mette a rischio la credibilità narrativa de La Passione. Il quartetto di sceneggiatori – Umberto Contarello, Doriana Leondeff, Marco Pettenello e lo stesso Mazzacurati – non si capisce se sia tale per una serie di problemi insorti durante la stesura della sceneggiatura o per una reale collaborazione tra loro. Quale che sia la risposta, resta problematica la scrittura di quello che dovrebbe essere il protagonista.

Il mio smarrimento di fronte allo schermo, come l’incertezza sulla valutazione, sono provocati dalle compensazioni positive che mette in scena il regista con alcune scelte brillanti, azzeccate e illuminanti (in particolare nel finale). Tanto per capirci: la virata drammatica con la sacra rappresentazione, con un commovente Battiston nei panni di Gesù, è probabilmente la parte migliore del film. Scivolare o declinare dal drammatico al comico non è facile, i rischi che si prendono possono essere molti. Il principale potrebbe essere quello di ritrovarsi con scene che tra loro non comunicano, che sono semplicemente giustapposte, senza per questo sviluppare un di più espressivo. La medicina con cui alleviare o evitare del tutto accostamenti innaturali adottata da Mazzacurati, è quella di raccogliere parti di amarezza, tristezza e inadeguatezza sulle spalle della deriva esistenziale di Orlando (non fa un film da anni e non riesce a scrivere uno straccio di storia adesso che ha la possibilità di dirigere una stella della tv), prodromi di un temporale in arrivo. Funziona? Solo parzialmente. Ma il vero problema non è lì.

Spassosa e intrigante è la partecipazione di Guzzanti, quale vanitoso attore locale, noto per la conduzione del programma meteo in una piccola tv, in un primo momento scelto per interpretare Gesù (la croce poco prima dell’inizio della sacra rappresentazione finisce per schiacciarlo, gli cade addosso, impedendogli di prendere parte allo spettacolo). Altrettanto “veri” i riferimenti impliciti al cinema italiano (la sequenza iniziale mentre scorrono i titoli di testa con il racconto di un possibile soggetto ad una segreteria telefonica, dà il giusto tono di un ambiente, a volte inconcludente e velleitario), il ruolo del produttore (oramai emissario della televisione per la realizzazione di qualsiasi progetto), la Capotondi (diva di un’Italia provinciale e ignorante), gli aiuto registi impegnati sui set delle fiction. Lo scarto tra questo mondo completamente preso da sé e le energie provenenti dalla realtà, si concretizza nella sacra rappresentazione che diviene luogo e spazio di una “passione”,  quella in cui lo spettacolo coltiva una traccia di verità, in cui l’identificazione tra il Cristo e il povero Cristo Battiston dà anima al tutto e coinvolge profondamente lo spettatore, senza per questo ripiegare in una morbosa esibizione del dolore.

La nota stonata è il ruolo di Silvio Orlando che per buona parte del film non accetta di diventare regista della sacra rappresentazione. È comprensibile che faccia difficoltà a mettersi a dirigere in un piccolo paese della Toscana uno spettacolo di cui non ha esperienza e interesse. In fondo sono solo delle circostanze che lo hanno obbligato ad accettare l’incarico (una perdita d’acqua dal suo appartamento ha rovinato un affresco del ‘500, il sindaco qualora si rendesse disponibile sarebbe pronto a non denunciarlo), e altre sono le sue preoccupazioni. Tuttavia è troppo marginale il suo impegno verso l’obiettivo che è il motore principale della narrazione: realizzare La passione per le vie del paese. A tirare avanti il film è Battiston (anche la fuga di quest’ultimo in quanto ricercato dalle forze dell’ordine e il suo improvviso e immotivato ritorno, sembrano dettati dal cercare di ridare spazio a Gianni Dubois-Orlando) che fa le veci del protagonista principale. Tra i due si stabilisce una dicotomia priva di sviluppo drammaturgico, se non in maniera meccanica. Anche le fantasie di possibili storie per il film che vorrebbe scrivere Dubois, visualizzate sullo schermo, spostano la tensione della narrazione senza una reale necessità di spingere sul pedale dell’anticlimax. Mazzacurati mette molte carni sul fuoco ma non le cucina bene. Dispiace, specie per l’intuizione che trapela dalla trama e prende forma nel finale, quella di un Paese che torni a scoprire la passione e l’anima delle cose.

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