La finale si giocherà nel weekend dell’Epifania ma il destino sembra ineluttabilmente segnato: Natale a New York resterà al primo posto del box office italiano. Durante le feste natalizie (dal 22 al 26 dicembre) l’incasso del film targato Aurelio De Laurentiis con Christian De Sica, nei 545 schermi monitorati da Cinetel, è stato di gran lunga migliore di tutti gli altri in programmazione. E ancora sino al 31 dicembre svetta in cima alla classifica: ha raccolto oltre otto milioni e mezzo di euro. Meglio dell’anno precedente in cui la coppia Boldi/De Sica con Natale a Miami avevano incassato due milioni e passa di euro in meno. Dal giorno dell’uscita il cinepanettone 2006 (per cui da prima del 22 dicembre) ha superato i 14 milioni di euro. Non esiste film italiano capace di competere. Per cercare incassi paragonabili bisogna andare al Muccino americano che negli Stati Uniti col suo The Pursuit of Happyness, in due settimane di programmazione, ha raggranellato quasi 70 milioni di dollari (esce in Italia il 12 gennaio con il titolo La ricerca della felicità). Ma questa è tutt’altra storia. Come dice lo “sconfitto”, con Olè, Massimo Boldi: “Natale a…è un marchio ultraventennale, il pubblico sa che quei film sono garanzia di risate”. E continua cercando di porre l’attenzione al bicchiere mezzo pieno: “Con un film solo mio, oltre che di Vincenzo Salemme, ho incassato 5 milioni di euro, se vi sembra poco”. Non è poco. Non ci vuole però molto a notare la differenza: 14 a 5. Olè guadagna un rispettabile terzo posto. Al secondo Eragon, fantasy bastonato ovunque tranne nel nostro paese.
I blockbuster made in Italy hanno di nuovo puntato al pubblico che va almeno una volta l’anno al cinema, quasi fosse una festa comandata, di precetto. Un pubblico che non sembra cercare sorprese. Che cerca volti televisivi riconoscibili. Che vuole ridere senza preoccuparsi troppo della storia. Che vuole immaginare città lontane. Insomma pare che per le feste natalizie la ricetta del cinepanettone, almeno stando ai risultati, funzioni. La definizione culinaria che se ne dà, Olé, Natale a New York e Commedia sexy, rimanda però in qualche modo al passato. Ad un’epoca, gli anni Ottanta, in cui trionfava un consumismo sfrenato, e a prevalere erano i prodotti di marca, senza particolari considerazioni sul rapporto qualità/prezzo. Gli oggetti di desiderio erano etichette, involucri in cui non contava tanto la sostanza, quanto l’immagine che produceva in chi ne entrava in possesso. Riuscivano a creare considerazione sociale, senso di appartenenza, in altre parole erano degli status symbol di massa. Da allora il consumatore è cambiato. Basti pensare proprio agli acquisti alimentari. L’attenzione alla qualità e al rapporto col prezzo è oramai un riferimento comune. Il consumatore è diventato critico. Ecco, se questo è stato il movimento, non si capisce perché tale processo non abbia coinvolto lo spettatore cinematografico. Non c’è forse stata una crescita o un cambiamento anche per lui? Commedia sexy sembra rispondere a tale domanda. “Io non volevo fare un film natalizio – dice D’Alatri, l’autore – ma un film che usciva a Natale, perché desideravo contattare un’area di pubblico molto spesso dimenticata: ce l’abbiamo fatta. Io ho realizzato un film col linguaggio tipico di questo periodo, quello della commedia”. Con i dimenticati in realtà D’Alatri intende quelli che “vanno al cinema poche volte l’anno”. Con loro si è piazzato al sesto posto. Incassando poco più di un 1 milione e 700mila euro.
Resta inevasa una domanda. Perché nessuno dei produttori italiani tenta la strada di un film che metta insieme gli abituali frequentatori della sala con quelli che ci vanno sporadicamente? Non è possibile? Bene. E allora per quale ragione non tentano di distribuire film per persone con altri gusti? Mi spiego: nei cinema, in questo periodo di feste, c’è il deserto per coloro che hanno un palato più ricercato, o quanto meno diverso. Non sarà che tutti, produttori e distributori, hanno fatto un tacito accordo per non pestarsi i piedi, così da lasciare campo libero a due-tre protagonisti con cui era difficile competere? Mi pare troppo macchinoso, un ragionamento teso alla ricerca di un solo colpevole. Forse una qualche spiegazione ce la può dare il convegno “Sos creatività – Fuori i colpevoli. Il fallimento di una generazione o l’egemonia di un’industria?”, tenutosi nei giorni scorsi a “Capri Hollywood 2006”. Gianni Celata, docente di economia dei media alla “Sapienza”, ha detto: “Il box office è in crisi con 90-100 milioni di biglietti venduti, un tasso di profitto dimezzato sulle produzione cinematografiche (2-3%), un calo nelle sale ed un aumento delle vendite home video, una crescita esponenziale di falsi e truffe sventate dalla Guardia di Finanza”. Questa pioggia di dati, insieme a ulteriori considerazioni emerse in quella circostanza, disegnano un settore assediato da televisione, internet e pirateria. La grande accusata, contro cui scagliarsi e lamentarsi, torna ad essere la tivù, a cui si aggiunge la rete, e con le tecnologie digitali la fabbrica del falso. Dietro quella che è la scontata competizione fra media nell’entertainment mi pare però nascondersi una pigrizia dei produttori e degli imprenditori che possono rischiare di più. Una mancanza di coraggio che li schiaccia sulle richieste dei canali televisivi. Consegnandoci poi sugli schermi cinematografici natalizi un cinepanettone i cui favolosi guadagni non si ripercuoteranno sul cinema italiano. Insomma: Prendi i soldi e scappa.