Lo spazio scenico è la cosa più interessante dell’ultimo Luchetti. La città che si allarga, sempre cara al cinema italiano. Uno spazio suggestivo, che più passa il tempo più stagiona; ed è così emozionante andare a rivedere, molto tempo dopo – potenza e unicità del cinema – com’era l’alba di un paesaggio senza alberi che poi con gli anni è diventato storia della città. Spazi senza cupole, senza guglie e senza storia, sospesi tra luogo e non luogo. Alienanti e affascianti. Cemento improvviso, strade dissestate, di polvere o fango, cantieri come funghi. Suv neri parcheggiati in obliquo, camioncini imbrattati di terra e mezzo arrugginiti. Qualche giacca elegante di pelle e tanti calzoni macchiati di calce, transenne, gru, colori della pelle diversi, accenti stranieri sotto un italiano arrangiato. La fotografia migliore della nuova società, perché è agli estremi spaziali dell’urbe che meglio si colgono i cambiamenti più recenti dell’organizzazione sociale ed anche lo stato di una cultura.
In questo senso il film è riuscito, perché il personaggio interpretato da un finalmente misurato ed ormai maturo Elio Germano (premiato miglior attore all’ultimo Festival di Cannes), incarna efficacemente un italiano popolare e medio al tempo stesso. Proletario e piccolo borghese insieme, in quell’omologazione verso il basso, incosciente e spedita, che ormai caratterizza impiegati e muratori, parrucchieri, venditori di case, di automobili e di casalinghi. Poliziotti, uscieri, baristi, maestri di tennis, laureati in sociologia, idraulici, operai, fisioterapisti e operatori sociali. Non che siamo tutti la stessa cosa, ma ci somigliamo tutti sempre di più, quando ci incontriamo nei centri commerciali, perché li si risparmia, o quando ci imbottiamo di tecnologia d’avanguardia, quando ci divertiamo ognuno con la propria squadra del cuore, quando ci arrabbiamo ognuno con la propria famiglia, più o meno croce e delizia, piombo e salvagente insieme, più o meno in piedi e più o meno a pezzi. Quando tutti facciamo i conti coi soldi contati che abbiamo, o con quelli che non abbiamo, quando ci guardiamo allo specchio o pensiamo in silenzio, nel buio del letto, al fatto che viviamo nella totale assenza di grandi speranze e grandi prospettive.
Ecco l’Italia che il centro città lo vede poco, che orbita in moto perpetuo ai margini della metropoli, nelle arterie secche di quei quartieri che si somigliano come prodotti industriali, tutti uguali, tutti degli stessi colori e della stessa materia. Con un’anima che ci mette decenni a formarsi, dopo che gli speculatori se ne sono andati da un pezzo, e la natura, per fortuna immortale, riesce ad avere la meglio. L’ex Italietta di oggi, più frustrata e più rabbiosa di prima, più consapevole e più fregata, che suda in silenzio un anno intero per una breve vacanza, forse, non è sicuro, una volta lo era. Un’Italia della politica chissenefrega, purtroppo, tanto sono tutti troppo lontano e tutti troppo impegnati, prima che tutti uguali e tutti brutti. L’Italia dello schermo piatto che manda milioni di informazioni che non ci fanno felici. L’Italia della play e della pay (tv) del climatizzatore, della caldaia esterna, della parabola, dell’Ipod e dell’Iphone. L’Italia che ascolta Ramazzotti, Bublè, Antonacci, Giusi Ferreri e l’eterno Vasco, che conosce le fiction meglio dell’ostico e palloso cinema italiano. L’Italia che vive consumando tutto quello che gli hanno imposto, che non sta malissimo ma non sta neanche bene, che parla di crisi e si sente quasi sollevata, finchè non passano gli anni l’acqua si alza sempre di più, e ci sfiora il mento e abbiamo paura.
Claudio si è sposato giovane e la mattina va al cantiere. Parla con tutti, bianchi e neri, africani e romeni, anche se gli africani i tetti non li sanno fare, perché al paese loro fabbricano capanne. Se c’è da urlare urla, se c’è da ridere ride e sul lavoro sa il fatto suo. Poi torna a casa e lo attaccano due ragazzini sani e vivaci. Due bimbi belli della periferia, tosti ed allegri. Più in là, magari in cucina, una ragazza come lui, di periferia, direbbe la Tatangelo, tutto meno che scema, disincantata e saggia, attenta al quotidiano e con piccolissimi sogni nel cassetto più vicino, quello a portata di mano, l’unico che si può aprire, altrimenti sticavoli. Lei ha il pancione grosso di otto mesi, lui la felpa della Roma e le scarpe di moda e di gomma. Tutto sommato felici, addomesticati e prigionieri del loro umile benessere. Stretti dentro al letto di Ikea, teneri come gattini. Poi la moglie muore e la famiglia tanto scandagliata dal cinema italiano salta in aria insieme ad ogni forma di felicità. Claudio sbrocca, come dicono a Roma, crollati gli affetti non rimangono che i soldi.
Ecco l’Italia di oggi: famiglia e denaro, altro non c’è. Claudio si convince che con più soldi in tasca andrà meglio, che quei tre criaturi innocenti possano sentirsi meno esposti e meno orfani con un facile sì a tutte le loro richieste. Balle, probabilmente, ma soprattutto dramma verticale, perché le cose gli vanno male e la violenza del contesto esterno, sempre causata dai soldi, lo aggredisce un colpo dopo l’altro. Il film gira che è un piacere, spedito e liscio, nel traballare della macchina da presa, nel suo inseguire l’ansia, la paura e la corsa del povero Claudio. E intorno a lui è vivo e dinamico il mondo che vive ai margini della metropoli, italiani credibili, avvicinati sempre di più da pensieri e parole provenienti da lontano.
Poi succede qualcosa, Rulli e Petraglia si guardano in faccia e non se la sentono di andare fino in fondo. Forse prenderebbero un premio a Cannes, ma tutto sommato chissenefrega, meglio incanalare il film verso l’alleggerimento, del resto mica sono i Dardenne. E allora ecco la luce e un soffio d’aria fresca sopra la sofferenza. Ecco il quasi happy end ed il baratro schivato di un soffio. Basta la lezione, forse, al povero Claudio, che i soldi potrebbero pure aiutare, ma contano anche altre cose, e soprattutto, i soldi vanno dove stanno i soldi, e gli schiavi del piccolo benessere si devono accontentare e fare i buoni, anche quando la moglie ti muore, e la tua vita va a picco nell’indifferenza generale. Di tutti, tranne che dei parenti, serpenti da un certo punto di vista, ma dall’altro gli unici a provare qualcosa per te. E a mettersi in gioco per la tua salvezza e la tua felicità. Luchetti è l’anti Ozpeteck, che storcerà il naso, o forse no, perché anche lui crede nella famiglia e negli affetti, solo che non crede nei legami di sangue.
Mi colpisce il riferimento ai Dardenne. Forse perché nel momento più disperato del film mi è venuto precisamente di pensare: se fosse un film dei Dardenne, Claudio si venderebbe il neonato!
Però la distanza tra questo ultimo Luchetti (e tanta parte del cinema italiano “realista” degli ultimi anni) e il cinema dei fratelli D. non sta tanto – mi sembra – nel differente livello di radicalità, nel maggiore o minore grado di spietatezza azzardato in sede di sceneggiatura. Lo scarto è ancora una volta in quella zavorra di sociologismo, in quella dittatura del presente, che appesantiscono il nostro cinema e gli impediscono di essere universale e dare vita a un personaggio come Rosetta: concretissima, dolente vittima della Storia, e al contempo fuori dal tempo e dallo spazio.
Rosetta è per me anche (immagine)tempo e (immagine)movimento!
concordo con la nota di Armando, perfetta e suggestiva la sintesi del concetto, con l’immagine dei Dardenne che avrebbero fatto vendere il neonato al protagonista. E’ vero, il taglio sociologico è uno dei principali limiti del cinema italiano di oggi, come lo stare ai ricatti di un pubblico che invece andrebbe aggredito, accoltellato, come disse una volta silvestri recensendo un film italiano, atipico.
Al film manca il coraggio di andare verso la tragedia, ed è invece fastidiosa la frenata degli autori, brusca e terrorizzata, visto che il film stava andando fuori dal seminato. Un mezzo peccato.