Occorre chiarire una volta per tutte che cosa sia questa umanità in cui viviamo.
E’ come se ragionassimo a compartimenti stagni. L’umanità siamo noi, i nostri vicini, quelli che parlano come noi, che hanno lo stesso colore di pelle, gli stessi modi, gli stessi usi e costumi, lo stesso dio. Gli altri, no.
Ma questa non è l’umanità, è tutt’al più il tuo clan e qualche altro compare! Eppure ragioniamo così. Chi sta di là dell’Adriatico è un alieno. Chi sbarca dall’Africa è un alieno. Il Siciliano è un alieno per il Padano.
La verità è che il mondo globalizzato (e messo in comunicazione dai mezzi sociali) è una Babele, in cui fatichi a ritrovare il senso stesso dell’appartenenza al tuo gruppo. Per cui il serbo è un criminale, ma se gioca nella tua squadra del cuore, e segna, è un fenomeno. Salvo poi rientrare immediatamente fra gli alieni se fa ritorno in patria, o anche se appende gli scarpini al chiodo.
Faccio questa premessa per collocare nella giusta prospettiva La Nave Dolce di Daniele Vicari, film-documentario che racconta – con le immagini di allora e di oggi – il “folle volo” di ventimila albanesi verso un’Italia che non li voleva. L’immagine insistita, unica, irripetibile, dei grappoli umani miracolosamente ospitati da un mercantile che trasporterebbe zucchero, semplicemente e dolcemente zucchero, ci rimanda a questo ribollire di concetti sfocati, tumultuosi, imprecisi e finanche dolenti. Quell’immagine, se volete, è tutto il film, in un gioco di specchi. Dove noi ci specchiamo in una torma di Albanesi, per dire che noi non siamo quelli, noi mai! Per negare loro l’appellativo di umanità.
Noi però non siamo neanche quei poliziotti e carabinieri che li picchiavano nel mucchio, quelli che hanno improvvidamente portato pane ad una massa di quasi 20 mila persone assiepate sconciamente in uno stadio, senza umanità, senza servizi igienici, senza cibo. Scatenando la rivolta, la ribellione. No, noi non siamo quelli, e non siamo nemmeno quel Presidente della Repubblica, che si presenta in conferenza stampa per minacciare il Sindaco.
Ci vergogniamo di quegli italiani, e ci vergogniamo perché nelle interviste di Vicari vediamo l’alieno che invece non lo è, il nemico che parla come noi, e ci richiama ai nostri doveri traditi, ci richiama al nostro senso di umanità oramai affievolito.
Ora, la vera domanda è la seguente: che razza di gente siamo noi? Chi sono diventati gli italiani?
Visto con gli occhi degli altri, siamo un ammasso di canaglie. Simpatici forse, ma da tenere a distanza. Infettivi ed infetti. Sembriamo un popolo, ma siamo una folla silenziosa e malamente indaffarata. Siamo sciaguratamente dei vigliacchi. Ma – prima di esserlo con gli altri (come nell’episodio della finta accoglienza dei ragazzi nella segheria, diventata poi trappola per delazione) – lo siamo con noi stessi.
Ci siamo smarriti? E come potevamo non farlo dopo uno sciroppo ventennale di televisioni, yuppy, speculatori a tutto campo, dopo iniezioni di “fatevi gli affari vostri e cercate di diventare ricchi a tutti i costi”?
Lo vediamo nelle istituzioni, nel cuore delle nostre istituzioni. Nel funzionamento degli organi diretti ed indiretti dello Stato. Sono infettati di criminalità, ne sono ingrommati. E non parlo solo della corruzione, dico che la criminalità è cristallizzata in una miriade di leggi e leggine, di provvedimenti, di Equitalie al galoppo, di soprusi grandi e piccoli per cui non ti puoi sentire più – se mai ti sei sentito – un cittadino portatore sano di diritti e doveri. Sei un suddito che vogliono vigliacco e succube a tutti i costi. Sei questo.
E in questo clima abbiamo accolto i 20 mila albanesi che costituivano un fenomeno straordinario, unico, di Europa fatta carne e sangue, dopo un secolo di divisioni e follie ideologiche. E, con loro, abbiamo fatto naturalmente i bastardi. Questo ci fa vedere il bellissimo e amarissimo documentario di Vicari. Dove non gli albanesi, ma noi, gli italiani, facciamo una figura da poveracci. Loro lo sono perché sono nudi, diseredati, e disarmati. Ma non alla partenza dalle loro coste, da Durazzo. No, lì loro erano ricchi, carichi di un sogno, di un travisamento se volete, dettato dalle fiction che via etere raggiungevano le antenne segregate albanesi.
Loro ci vedevano così.
Io oggi non riesco più a vedere Rai1, e non per un problema di sintonia. Non so chi ne concepisca il palinsesto, ma più che un canale sembra uno specchietto per allodole imbecilli. E loro ci vedevano così. E avrebbero voluto essere così, dopo una vita passata a marciare con le bandiere rosse nella destra e il pugno chiuso nella sinistra. Silenziosamente. Senza perché. Avendo perfino paura di pensare ad un qualche perché.
Quello che vediamo nel film, e che ha la stessa intensità dei campi di concentramento nazisti filmati dagli americani, quei corpi indistinti, quell’umanità informe, quei volti senza faccia, quelle anime perse, è la dimostrazione che il Medio Evo non è veramente ancora finito. E rimaniamo soli, con i nostri stereotipi, con le nostre paure, coi nostri nemici (veri o presunti).
Senza un perché.