Giovedì 19 aprile si è concluso con la serata intitolata “dietro l’alibi della follia” il ciclo di due incontri dedicati al 1977 che Schermaglie ha realizzato in collaborazione con il cineclub Detour. Abbiamo sentito l’esigenza di approfondire il tema della follia e così abbiamo incontrato lo psichiatra Maurizio Bacigalupi, ex direttore del Dipartimento di Salute Mentale a Roma, oggi libero professionista che si occupa di formazione e di ricerca di studi epidemiologici. Ha conosciuto Franco Basaglia e ha lavorato con lui.

La legge Basaglia viene approvata dal Parlamento a maggio del 1978.

Sì, viene approvata a maggio e in qualche modo anticipa di pochi mesi la riforma complessiva del Sistema Sanitario Nazionale che è del dicembre dello stesso anno perché c’era stato un referendum abrogativo della legge psichiatrica. Quindi è entrata in quel pacchetto di leggi che rischiavano di essere abrogate e di lasciare un vuoto così il Parlamento anticipò questa parte della riforma. Per questo prende il nome di Legge 180.

La Legge Basaglia si ispirava all’antipsichiatria, una corrente di pensiero nata in Inghilterra nel quadro della contestazione e dei fermenti rivoluzionari del 1968. Potrebbe spiegarci brevemente che cos’era e a cosa si ispirava?

Innanzitutto bisogna dire che esiste una tradizione vecchia di qualche secolo, un filone di psichiatria attenta alla malattia mentale, orientata  “al buon trattamento delle persone”. Ci sono tutta una serie di esperienze che nascono in Inghilterra in quegli anni che poi si ripotenziano in Francia, in particolare durante il periodo della Rivoluzione francese con l’Illuminismo, fino ad arrivare a quella che è definita il simbolo della riforma psichiatrica italiana con Pinel che scioglie le catene dei matti, delle persone che erano detenute più che ricoverate all’interno degli asili di salute mentale, in quanto erano delle strutture assolutamente eterogenee perché andavano dalla dimensione del carcere al controllo di tutta la devianza sociale: lì c’erano gli alcolisti, le prostitute, i ladri e anche tutte le persone con problemi seri di malattia mentale.

In Italia il percorso della Riforma psichiatrica inizia con una serie di esperienze che sono state fatte da Franco Basaglia verso la metà degli anni Sessanta a Gorizia che si rifanno in parte al modello inglese dell’antipsichiatria. Con  questo termine si intende un movimento che nasce negli Stati Uniti con il quale si cercava di mettere in discussione tutte le dimensioni autoritarie dell’organizzazione della società tra le quali c’era anche la sanità  e in particolare la sanità dei disturbi mentali. Il movimento ruotava intorno a Cooper e Laeng, che sono i due grandi teorici di questo movimento che si connotava per essere contro la famiglia. Dall’altra parte c’era invece un modello di tipo filosofico che fa riferimento a Heidegger e al pensiero che da lui si è tradotto in Minkowski, il quale ha prodotto una psicopatologia di rinnovamento nella quale tutta l’attenzione alla persona viene posta come elemento centrale del lavoro. La cosa rilevante di Basaglia è che lui ha collegato queste due dimensioni in modo da creare una serie di confusioni nell’uso di alcune parole d’ordine.

In che senso?

Mi riferisco alla famosa frase “la malattia mentale non esiste”. Questa è una tipica affermazione del movimento antipsichiatrico inglese che, invece, Basaglia utilizza in un altro modo. Lui sostiene che la malattia mentale non esista in quanto nel contesto della realtà manicomiale in cui non sono garantiti i diritti elementari dell’individuo non si può incontrare la persona, quindi non si può che mettere momentaneamente tra parentesi la sua malattia mentale. Il primo lavoro da fare con un malato mentale è quello di ridargli una storia, un’identità; solo dopo aver fatto questo è possibile incontrare la sofferenza della malattia mentale. Questa è la grossa originalità del pensiero basagliano e della psichiatria italiana che non si muove solo in una dimensione di rifiuto ideologico, ma si ricollega a una tradizione della psichiatria più nobile che ricostruisce la possibilità dell’incontro con la persona nel momento in cui la persona è stata liberata da una serie di condizioni umilianti quali erano quelle dell’isolamento degradante del carcere. Il problema quindi non si poteva risolvere semplicemente costruendo manicomi dove non legassero i pazienti o non li trattassero violentemente; il manicomio non è un carcere perché è brutto, il manicomio è comunque brutto perché è un luogo di esclusione delle persone. Il manicomio è nato come derivazione delle carceri che in passato si chiamavano asili di mendicità e dove vi erano ricoverate tutta una serie di persone con situazioni di emarginazione sociale. In questa dimensione, se non si costruisce la possibilità di incontrare la persona, non si può fare un lavoro psichiatrico. È questo che dice Basaglia.

Però poi l’applicazione della legge quali ostacoli ha incontrato?

La legge Basaglia risponde alla necessità di rispondere ai tempi che non erano né quelli della politica né quelli della riforma sanitaria. Nasce quindi con un’indicazione molto precisa che è, credo, unica, al mondo per la richiesta specifica di chiusura degli ospedali psichiatrici. Infatti il punto primo della legge dice che “gli ospedali psichiatrici sono chiusi”. Questo processo è avvenuto certamente nell’arco di anni, non repentinamente. Nel Lazio, per esempio, la chiusura degli ospedali psichiatrici avviene nel 1980. Concretamente l’ultima persona ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Roma risale al 1995. L’assistenza alle persone che hanno problematiche di salute mentale vengono affrontate in una nuova struttura che nasce nei luoghi di vita delle persone, il famoso “territorio”. Questa struttura è il Dipartimento di Salute Mentale, che  al suo interno ha una serie di servizi: alcuni sono di tipo ambulatoriale, altri di assistenza domiciliare; poi ci sono una serie di servizi residenziali per quelle persone che hanno transitoriamente delle difficoltà a continuare a vivere nei contesti di relazione familiare; delle strutture semiresidenziali che possano garantire la partecipazione dei pazienti ad attività di tipo clinico e anche di contesti specifici ospedalieri che richiedono una struttura ospedaliera. All’interno della struttura ospedaliera sono possibili anche dei ricoveri contro la volontà del paziente che sono chiamati “trattamenti sanitari obbligatori”.

Quindi è possibile oggi il ricovero di un paziente non consenziente…

Certo. È tuttora possibile. Il grande cambiamento è stato di ordine concettuale e di cont
enuto: prima esisteva il ricovero coatto che veniva fatto nei confronti di una persona considerata pericolosa per sé e per gli altri o di pubblico scandalo. Infatti il problema riguardava soprattutto le conseguenze dei comportamenti che un malato mentale assumeva ed era uno strumento che veniva utilizzato attraverso delle procedure che erano quelle della polizia. Gli ufficiali di polizia, sulla base di una certificazione sanitaria, provvedevano a ricoverare le persone considerate malate mentali che comportava una serie di ripercussioni come quella di essere comunicato all’ufficiale sanitario e di venire riportato sulla fedina penale. La prima grande riforma, prima ancora di quella della chiusura dei manicomi, è stata quella di riconoscere che la malattia mentale è un problema sanitario e non di ordine pubblico. E quindi anche la possibilità di utilizzare i sistemi coercitivi è rientrata nelle coercizioni previste per la tutela della salute delle persone e non per garantire l’ordine pubblico.

Cosa significa in concreto?

Partiamo da un esempio lontano dalla psichiatria: il trattamento sanitario obbligatorio esiste da sempre nella legislazione sanitaria. Se c’è una persona che ha una malattia infettiva questa può essere isolata. In passato, quando si doveva rientrare a scuola da una malattia, bisognava avere il certificato dell’ufficiale d’igiene che, in caso di non ammissione, mandava i suoi sanitari per disinfettare la casa  e a questo non ci si poteva opporre. Oggi il trattamento della malattia mentale rimane all’interno di questa logica: se il malato è in una condizione in base alla quale è difficile che si renda conto della condizione di malattia, si è legittimati a mettere in atto dei comportamenti per tutelare la sua salute e quindi per garantire a lui la possibilità di stare meglio.

Qual è quindi la procedura che si segue?

Innanzitutto questo non è più un provvedimento di polizia. L’ordinanza viene emessa dal sindaco, la più alta autorità sanitaria di un territorio, e poi viene mandata per conoscenza al giudice tutelare. L’aspetto concettuale diverso è che la magistratura entra nello scenario non a persecuzione della persona ma a tutela dei diritti di una persona. Siccome nel momento in cui una persona viene sottoposta a un trattamento sanitario obbligatorio i suoi diritti vengono fortemente limitati, si informa l’autorità giudiziaria che vigila sul rispetto delle condizioni che regolamentano le limitazioni della libertà per motivi di cura. L’altro elemento innovativo di ordine pratico è quello che mentre prima il ricovero obbligatorio non aveva un termine, la riforma ha previsto che il trattamento sanitario obbligatorio abbia un termine.

Quello che non è ancora avvenuto nel nostro paese è invece la riforma del sistema sanitario giudiziario: è rimasto immutato l’ospedale psichiatrico giudiziario che è il luogo in cui vengono internate, in un regime di custodia e di cura, quelle persone che avendo commesso un reato sono state riconosciute incapaci di intendere e di volere. Quindi non potendo essere processate vengono messe in atto delle misure di sicurezza come il loro ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari. Da lì possono essere dimesse in seguito a una documentazione che accerti la decadenza del rischio di pericolosità sociale.

Dunque sono numerosi gli equivoci che si sono costruiti intorno a ciò che ha ispirato la Legge 180 e che definiscono il concetto di malattia mentale. Qual è l’origine della malattia mentale secondo Basaglia?

Basaglia non diceva che all’origine della malattia mentale c’era una causa sociale, ma che l’organizzazione sociale ha un grosso ruolo nel determinare la modalità con cui appare la malattia mentale e su come viene trattata. Oggi possiamo dire che la causa della malattia mentale è di ordine plurifattoriale: intervengono sia aspetti che hanno a che fare sia con le dimensioni genetiche di una persona, sia con quelle ambientali. Per esempio, non esiste un gene responsabile di una malattia mentale: ci sono diverse parti (loci) di diversi geni che contribuiscono a determinare la malattia mentale, ma non c’è un gene specifico come per alcune malattie (si pensi al morbo di Down). Altrettanto importante è la dimensione ambientale che ha una forte rilevanza nel determinare la malattia mentale. Il modello che oggi viene più seguito è quello di un’eziologia bio-psico-sociale: cioè c’è una dimensione biologica che definisce e struttura una vulnerabilità. La relazione con la realtà costruisce la dimensione psicologica e quindi l’aspetto psicologico, la modalità con cui si scrivono le relazioni psicologiche è determinato da questa duplice area. L’ambiente entra in maniera assolutamente determinante perché ha la capacità o di rendere patologia una vulnerabilità o di favorire dei processi di recupero di dimensioni di vulnerabilità potenziali. Questo lo vediamo in tanti esempi: figli di genitori con problemi psichiatrici dati in adozione hanno diversi destini che sono fortemente legati alla famiglia a cui sono stati affidati.

Insomma il fattore ambientale è quasi determinante…

È assolutamente determinante soprattutto nei processi di cura. Gli psicofarmaci agiscono prevalentemente sulle dimensioni sintomatiche della malattia, cioè sui sintomi (nervosismi, ansie e così via). Ma la possibilità di cambiamento della condizione clinica di una persona è data sostanzialmente dalle risorse ambientali in cui quella persona si trova. La difficoltà della Legge 180 ha riguardato la difficoltà di riorganizzare il sistema sociale nella costruzione di una rete di assistenza. È sicuramente vero che si sono scaricate le responsabilità sulle famiglie che hanno diverse possibilità e capacità di sostenere la malattia mentale, ma il contesto in cui si lavora oggi è quello volto a costruire una rete in cui la famiglia ha sicuramente un ruolo determinante ma integrato in una rete sociale del quale fa parte il Dipartimento di Salute Mentale, che a sua volta dovrebbe scomparire nella rete delle relazioni sociali e dei servizi sanitari. In questi anni abbiamo assistito in maniera drammatica al cambiamento delle patologie mentali dei pazienti che oggi richiedono l’aiuto dei servizi psichiatrici. Oggi le loro condizioni sono cambiate: vengono dai contesti di maggiore benessere e quindi la schizofrenia, che ancora oggi esiste, si affianca ad altre forme fenomenologiche come le malattie legate al periodo dell’adolescenza complicate dall’assunzione di sostanze.

Quindi il benessere ha prodotto nuove patologie?

No. Diciamo che abbiamo una diversa fenomenologia del disagio. Pensiamo al problema dell’anoressia che rappresenta una patologia che probabilmente in passato si conosceva come isteria. Per chi si occupa delle dimensioni epidemiologiche delle malattie è chiaro che la loro distribuzione no
n è così omogenea in tutto il mondo. I paesi ricchi ne sono maggiormente affetti.

Per concludere con una battuta paradossale, la legge Basaglia ci ha messo nei guai in quanto ci ha costretto a confrontarci direttamente con la sofferenza delle persone e con i cambiamenti del loro livello di benessere. Rimettere al centro la persona e la relazione con la persona come elemento fondamentale del trattamento psichiatrico è stata la grande forza della legge. L’essere curato non può essere equiparato all’essere escluso e quindi non si può immaginare una cura che preveda un’esclusione.

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