di Federico Vignali /Parlando di psicanalisi, Miguel Benasayag ha scritto che oggi la dimensione tragica è sostituita pesantemente da quella di gravità, nel senso che gli individui hanno perso del tutto la loro capacità di essere toccati in modo organico da qualunque cosa che non li urti direttamente. Come se il loro universo si fermi ai limiti del loro corpo. O del telefono.
Il delitto Pasolini, anche dopo tutti questi anni, sfugge sicuramente a questa specie di regressione percettiva o sensoriale del dolore. Al di là del talento di Grieco, la scena finale dell’assassinio dell’autore bolognese riesce a sconvolgere tremendamente i nostri sensi, sia per la violenza inaudita degli esecutori che per il significato di quella perdita. Non serve certo questa recensione per riflettere su quanto il regista di Salò possa ancora incidere sulle coscienze e i riflessi anestetizzati di oggi, molto più di qualsiasi intellettuale contemporaneo sia in grado di fare adesso. Anzi, abbiamo assistito a decine di presentazioni e dibattiti culturali che si sono conclusi con l’invocazione di cosa Pasolini avrebbe eventualmente detto sull’ennesimo passaggio del degrado morale ed estetico che stiamo attraversando, senza che si arrivasse a proporre altro. Assistendo a La Macchinazione ci è assalita la stessa impotenza che si può provare ad un incontro con Delbono o dopo aver letto dieci numeri di fila di Internazionale. Possiamo anche sapere tutto dell’inquinamento in Marocco, dei responsabili del traffico di cocaina in Nicaragua o cosa pensano i francesi delle escort di Berlusconi.
Il fatto di non avere più alcuno strumento – o averne troppi – per intervenire è quasi peggio che venire a conoscenza di certi scandali. Ora grazie a Grieco, che collaborò assiduamente con lo stesso Pasolini ai tempi de l’Unità, veniamo a conoscere ulteriori e preziosi dettagli su metodi e moventi che portarono a quell’assassinio. Adesso il quadro è chiaro e paradossalmente la nostra unica libertà sembra solo quella di giudicare il livello della messinscena de La Macchinazione.
La critica più forte che è stata mossa al film è che Grieco ipotizzi che Pasolini sia stato ucciso per la sua personalissima inchiesta su Petrolio. In questo senso il regista restringerebbe l’incidenza del grande autore sulla nostra eredità culturale a quel solo aspetto di un’unica opera, tenendo fuori o non filmando le sue grande provocazioni, l’estetica, l’eloquio o la preveggenza. Ecco, se il modo con cui Grieco omaggia la lungimiranza di Pasolini diventa quello della scena con i telefonini, allora molto meglio che il tutto abbia mantenuto il taglio di un noir, in cui la maschera di Ranieri sembra molto a suo agio, al di là della somiglianza davvero surreale.
Se l’identificazione e la partecipazione dell’attore napoletano è così intensa e riesce ad andare anche oltre l’esiguità di alcuni dialoghi che avremmo immaginato più irruenti ed elevati, anche la ricostruzione della malavita romana sembra abbastanza fedele e in linea con i canoni del genere. Taranto parla un pò il romanesco come Celentano, ma la sua prova d’attore è molto convincente e fisica come quella del bravo De Rienzo che affascina molto con la vicenda del suo Pinna.
Ecco, un film su un personaggio del genere sarebbe stato altrettanto interessante e avrebbe tirato in ballo gli stessi argomenti, senza irrompere sulla biografia di un mostro sacro della nostra cultura che finirà per dividere sempre.
Il film è molto duro, trasmette un tremendo senso di ineluttabilità, ti toglie l’aria che respiri un poco alla volta, attraverso la tragica e lucida consapevolezza di Pasolini. Quando va al macello, consegna alla madre con grande serenità la sua verità “ il tradimento sarà consumato da un innocente, perché solo l’innocente può tradire”.