La guerra tipicamente americana del congressman Charlie Wilson all’armata rossa inizia con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, tra la fine del 1979 e i primi mesi del 1980. Non si tratta di una sfida folle e privata, ma di un esempio di impegno personale in quella guerra fredda anticomunista che ogni americano, civile o militare che fosse, era chiamato a combattere. Uccidere i russi: questo era considerato patriottismo. Tratto dal libro biografico Charlie Wilson’s war: the extraordinary story of the largest covert operation in history di George Crile, pubblicato nel 2003, il film di Nichols è una commedia che diverte ricorrendo alle note virtù libertine del democratico Wilson, amante di whisky e donne, aspirine e Optalidon (come diceva Walter Chiari); e sfruttando, al contempo, il ruolo che questi ebbe nella fornitura di armi ai mujahiddin per innescare una serie di riflessioni sulle guerre di oggi.
Ennesima pellicola bellica della recente produzione USA (segue Rendition, Redacted, Leoni per agnelli, Nella valle di Elah e Grace is gone), La guerra di Charlie Wilson rivolge lo sguardo al recente passato per illuminare gli effetti della politica estera americana nel presente: il film inizia con l’immagine notturna della sagoma di un combattente afghano che lancia un missile Sting per abbattere un elicottero (russo) e, contemporaneamente, infiamma lo schermo bruciando il quadro allo spettatore (americano). Prodotto da Tom Hanks (è lui che possiede i diritti del libro), il regista torna a mettere in scena in questo lavoro le assurdità delle guerre già esplorate trent’otto anni prima in Comma 22, evitando ogni sortita trasgressiva, come fece invece ancor prima ne Il laureato, ed esaltando nuovamente uno spirito ambizioso e meritevole come la Melanie Griffith di Una donna in carriera. La sceneggiatura scritta da Aaron Sorkin ha saputo ben ridurre il voluminoso testo di Crile in appena novanta minuti di spettacolo nei quali riviviamo a ritmo sostenuto gli anni Ottanta di Mr. “Goodtime” Wilson e della miliardaria e fondamentalista cristiana Joanne Herring (Julia Roberts).
Un autore televisivo che scrive per un regista teatrale, e il cast tecnico organizzato dallo stesso Hanks sembrano essere il segreto di un prodotto che riesce nell’intento di legare armoniosamente satira e politica; integralismi religiosi e umanitarismi compassionevoli; efficacissime gag da commedia teatrale e immagini di repertorio della “prima” guerra afghana, arricchite con didascalie sui numeri delle perdite russe. Al personaggio di Gust Avrakotos, interpretato dall’ottimo e versatile Philip Seymour Hoffman, sono affidate le battute chiave per sdrammatizzare e semplificare contrasti tanto complessi quanto palesi come l’amabile collaborazione tra ebrei, cristiani e musulmani o l’incredibile e ingenuo potere catartico affidato, per ben due volte, alla vista di una campo profughi ricostruito in Marocco; lasciandoci prendere la mano potremmo anche notare che un attore indiano interpreta il presidente pakistano. Non avrebbe potuto essere altrimenti: Mike Nichols, ebreo tedesco nato a Berlino nel 1932, ha vinto l’Oscar alla regia per Il laureato e un altro per le musiche di Una donna in carriera; ha ricevuto numerose nomination per altri film, ma è l’attività teatrale che gli è valsa i riconoscimenti più prestigiosi, in particolare per le regie delle piece di Neil Simon La strana coppia, A piedi nudi nel parco e Prigioniero della seconda strada.
L’avventurosa vita del grezzo deputato texano Wilson poteva essere il soggetto per un buon documentario, ma documentari sulle guerre di oggi sono stati già prodotti, girati e distribuiti, hanno visto impegnati volti noti e meno noti del cinema americano. Nonostante ciò, Iraq e Afghanistan continuano a incassare al botteghino meno del Vietnam: non riescono a diventare movimento di massa. Il pubblico americano rifugge ogni tentativo di gettare le maschere. Tentare la chiave della commedia era l’esperimento che si attendeva per coniugare spettacolo e attualità, entertainment e riflessione: Mike Nichols era l’uomo giusto al momento giusto, ma forse non sarà sufficiente.
Come diceva il maestro zen: vedremo.