Perchè sì |
Perchè no |
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di Martina Federico La superbellezza, l’immensa bellezza. La prima cosa che verrebbe da dire per giustificare la riuscita dell’ultimo lavoro di Sorrentino è che a fare un film migliore di This must be the place non è che ci volesse poi tanto. Magari è tutta una strategia: fare un film pessimo, per fare apprezzare meglio il successivo.Poi però, a ben guardare, qualcosa che lega tra di loro i due film c’è veramente. Lo stesso criterio che lì decreta l’insuccesso del film, è qui responsabile del suo successo. Un criterio di distanza. Lì la lontananza, qui la vicinanza. Dopo l’America, Roma. This must be the place era un film troppo lontano per chi sceglie di usare la satira sociale sul suo paese come punto di forza della propria produzione (e infatti c’è molto poco di più italiano della voglia di fare un film su Giulio Andreotti). La grande bellezza non ha vinto in Francia (a Cannes) per lo stesso motivo per cui This must be the place non è piaciuto in Italia. A differenza de Il Divo che porta agli occhi del mondo la politica italiana, La grande bellezza ha come riferimento sempre l’italianità, ma un’italianità di costume, di linguaggio, di contesto sociale e culturale. La politica, allo stato attuale delle cose, sarebbe stata fin troppo pop, un gossip, il corrispettivo nazionale di ciò che rappresentano pizza e mandolino per Napoli. E infatti fa solo da sottofondo.La parola chiave del film è “con amore”; nel film precedente era “con scarso coinvolgimento emotivo”. Tutti i personaggi di La grande bellezza sono descritti con un amore infinito. Si vede dalla generosità delle scelte stilistiche e dall’enorme cura estetica. Sto parlando in primo luogo del protagonista, Jep Gambardella. Poi, a seguire, del personaggio di Sabrina Ferilli, di Carlo Verdone e di molti altri. E dentro questo amore sono compresi anche quelli – per così dire – negativi. Sorrentino ce li ha a cuore tutti. Il motivo è da ricercare nel fatto che sono personaggi, tutti, di cui il regista ha una conoscenza profonda. La materia maneggiata gli è agevole. Ho visto La grande bellezza il giorno dopo la sua uscita. Era il 22 maggio. È passato un po’ di tempo, di cose in giro se ne sono sentite. E ho come la vaga impressione che chi ha letto i suoi romanzi sia riuscito ad apprezzare di più il film. La struttura dei due tipi di testi è infatti simile. E, dal mio punto di vista, è questa la chiave in cui va letto il film. Anche qui c’è un personaggio principale, che è ovviamente, ancora e per sempre Tony Pagoda, attorno al quale ruotano tutta una serie di altri personaggi, al centro, a loro volta, degli sketch che li riguardano. La satira su ogni cosa, sulla cultura, sulla società, sugli stili di vita è un elemento costante, fondamentale. Da questa centralità deriva anche il fatto che il film è pieno di dettagli divertenti da scovare (il primo che mi viene in mente, ora mentre scrivo, è l’uomo con il cagnolino a un guinzaglio lunghissimo). E si ride molto, guardando La grande bellezza.Sul film vige il punto di vista di Jep Gamberdella, che è contemporaneamente un in&out, un fuori ma dentro. In definitiva: un outsider in (giusto per chiamare alla memoria in maniera non casuale il modo in cui è stato definito un altro grande autore di satira: Nanni Moretti). Un mondano, che però conserva la purezza di un approccio satirico agli eventi. Uno che non solo va alle feste, vuole divertirsi, far tardi la sera, essere al centro, ma vuole avere anche “il potere di farle fallire”, queste feste. Un punto di vista ideale, una posizione privilegiata. Tony Pagoda, Pagodino bello, di Hanno tutti ragione viveva esattamente nello stesso punto d’osservazione. Era considerato un figlio di puttana, però conservava per sé – e per noi – tutto lo schifo che provava. In via strettamente confidenziale, la colonna sonora della sua sincerità. Ed era qui che lo amavamo di più. Anche – e soprattutto – perché in questi momenti segreti era capace di frasi definitive di satira eccellente. A differenza di Pagodino bello, Jep Gambardella, forse risulta ancora più esplicito. A casa del personaggio interpretato da Isabella Ferrari a un certo punto dice: “ho smesso di fare cose che non mi va di fare”, E se ne va da casa sua mentre lei è andata a prendere il computer per mostrargli gli autoscatti che si concede tutti i giorni. Altrettanto esplicitamente dice alla scrittrice politicamente impegnata e madre che, se riesce a fare tutto, è perché ha uno stuolo di camerieri che lavorano per lei.Se per “solida sceneggiatura” intendiamo un forte nucleo narrativo, La grande bellezza è un film senza una solida sceneggiatura. Ma, mai come in questo caso, ciò costituisce il punto di forza del film. E anche quando si ha per un attimo l’impressione che stia iniziando un microstoria – e nella fattispecie una microstoria di redenzione, di salvezza, da ambo i lati – il regista fa morire il personaggio (Sabrina Ferilli). Non è quello che gli interessa, vuole che il film vada dichiaratamente da un’altra parte. Centocinquanta minuti, quattro morti, ma non per questo è un affresco. Nè tanto meno un tentativo di rifare La dolce vita, accostamento certamente allo stesso tempo facile e azzardato, e non perché il film non ne sia all’altezza ma perché La grande bellezza rintraccia i suoi punti di riferimento internamente alla produzione di Sorrentino. Non solo il film è profondamente letterario, perché ha come precedente un libro di cui sembra piuttosto un adattamento, quanto già il libro era intrinsecamente cinematografico. La scena in cui un personaggio defeca al centro di un salotto per sfregio al fratello (vado a memoria), in Hanno tutti ragione, è descritta con un ritmo e uno sguardo che restituisce in pieno quello di una sceneggiatura. C’è poi in particolare una scena che, con le dovute ricontestualizzazioni, rivediamo nel film. È la scena a casa della contessa con i due bambini e il maggiordomo che mantiene il candelabro al buio, perché la contessa non vuole accendere le luci per risparmiare. Anzi, le lampadine non ci sono prorprio, e te le devi portare da casa! (scena scritta in modo tale che, a distanza di tre anni, si possa ancora ridere). Nel film, c’è un’affascinante Sabrina Ferilli che indossa un mantello fatato e viene guidata da un custode che, dall’oscurità di una villa, le indica la via d’accesso a viste privilegiate sulla capitale. In misura forse ancora maggiore rispetto a Hanno tutti ragione, il film riprende la struttura a sketch di Tony Pagoda e i suoi amici, seconda opera letteraria di Sorrentino. E, infatti, proprio da questo libro è tratto l’incontro con Antonello Venditti (tutti, tra gli adepti, si aspettavano che spuntasse da un momento all’altro anche Maurizio Costanzo). Non si fa fatica a far coincidere il modo di scrivere di Sorrentino con il modo di parlare dei personaggi (nello specifico, Toni Servillo), soprattutto se per scrittura intendiamo una scrittura umoristica, satirica, in un cui la costruzione della frase e la scelta, la ricerca sulle parole sono un elemento imprescindibile. E non a caso La grande bellezza è la storia di uno scrittore, se di storia si può parlare. La prima pagina della sceneggiatura pubblicata su Repubblica Spettacoli poco prima dell’uscita del film, rende, a questo proposito, subito l’idea. Per fornire dettagli sull’atmosfera, Sorrentino scrive: “il cielo è di un azzurro irripetibile”. La scelta dell’aggettivo, a metà tra la poesia e l’ ironia, ti portava a concludere che non poteva che averlo scritto lui. Il tono sacrale è inconfondibile. Ed è proprio il tono sacrale dello scritto che diventa, se ci spostiamo su un piano visivo, una sequenza di scene memorabili. La grande bellezza è questo: una sequenza di scene memorabili, intrise di satira. |
di Alessia Brandoni Qualche giorno fa, mentre tornavo a casa – abito a Roma, in un quartiere molto meno popolare e sempre più modaiolo – nei pressi della rumorosa piazzetta una macchina si ferma e tre ragazzotti, sbracciandosi fuori dai finestrini, prendono a urlare beatamente il vecchio tormentone della Carrà (riattualizzato da Paolo Sorrentino): “aah, aaah, a far l’amore comincia tu”. Risposta corale del gruppetto all’angolo: “aah, aaah, aah, aaah”.Questo per dire che ora capisco meglio cosa voleva dire Alessandro Piperno quando sul Corriere scrive: “Jep Gambardella è una specie di Lebowski: uno che sta lì per riscattarci tutti”. E a dirla tutta, ora capisco ancor di più la risposta di Paolo Sorrentino, che è sfuggente non tanto per adesione all’ambiguità dell’esperienza umana quanto, piuttosto, per probabile vocazione al passatismo e alla consolazione: “Idealmente sono rimasto seduto sul muretto sotto casa su cui passavo le giornate da ragazzo. Lì nessuno si prendeva seriamente. Il cazzeggio era una grande risorsa” – pausa, si immagina in stile acqua cheta- “è vero, sono un nostalgico. Il presente non mi interessa, non mi smuove”. La grande bellezza (che se fosse un libro farebbe crollare il già delicato equilibrio su cui si basa l’ineffabile savoir “assoluto/adelphi” – a proposito, che dire della scena della santa addormentata per terra con gli Adelphi tono su tono accucciati nella libreria di fronte?) è un film tanto ambizioso quanto furbacchione, che all’inizio si atteggia a riflessione critica sull’esistenza ma che alla fine -anche se immagino che non tutti se ne siano accorti, tanto è il fracasso ammaliante che Sorrentino non manca virtuosisticamente di costruirci tutto intorno – attraverso la costante strizzata d’occhio all’autocommiserazione si risolve nel farne l’apologia. Eh sì perché Sorrentino, molto lontano dal rigore di un film come L’amico di famiglia, ha oramai imboccato l’arte della messa in scena imitativa e pleonastica, una sarabanda in cui la realtà specifica e necessaria del cinema come arte si perde a favore dell’intrattenimento (rassicurante, quando non incoraggiante, in ogni caso a forte trazione commerciale). E in questo senso anche il massiccio ricorso alla letteratura e al teatro sembrano più un allontanarsi dal cuore del linguaggio cinematografico che un’aggiunta di senso necessaria. Lontani anni luce da un cinema che riflette la realtà “invisibile”, non siamo neanche dalle parti del cinema performativo che tenta di rileggere in modo innovativo il fenomeno dell’apparenza e della realtà all’interno dell’indagine decostruente l’identità in rapporto con il mondo – ché l’unità è oramai roba da paradiso perduto (vi ricordate la rivendicazione reazionaria “coloro che non hanno conosciuto l’Ancient régime non potranno mai sapere cos’era la dolcezza della vita”?). Di un cinema, cioè, in cui il senso non è dato ma piuttosto è mostrato come processo. In cui il regista è il vero performer che investiga il rapporto (post)moderno tra realtà e finzione. In cui la performance spesso acquista connotati liberi e accrescitivi quanto alla consapevolezza sprigionata dai tanti io divisi e diversi investiti nel processo di messa in scena (mi viene in mente Tournée di Amalric, Io non sono qui di Haynes e il cinema di Chantal Akerman). Qui invece non c’è mai una sensazione di incertezza, si passa dal simbolico al sogno ma sempre in una condizione che si direbbe data – e ciò anzitutto in virtù dei movimenti di macchina del regista e delle situazioni che egli risolve quasi sempre a favore di una dimensione macchiettistica o cinicamente idealizzata: il passato che salva; il dolore che salva; l’altrove/assoluto che salva. La mistica del dolore incarnata – e bene, la Ferilli è molto brava – dal personaggio interpretato da Sabrina Ferilli, ecco allora che all’interno del meccanismo manipolatorio e conservatore architettato da Sorrentino assurge a ciliegina sulla torta di un milieu borghese che solo nell’assoluto del dolore, come in quello del tempo perduto o della fuga nell’onnipotente immaginazione creativa (il film termina con il protagonista che decide finalmente di scrivere il suo libro, anche se il film, ed è bene evidenziarlo, non è il processo di quella creazione), riprende contatto con la propria parte umana – sai che rivoluzione! Ché l’esperienza che domina tutto il film non è quella del dubbio, della sospensione e dell’incertezza (che nel linguaggio cinematografico è – o almeno dovrebbe essere – anzitutto ontologica), bensì quella della fuga compiaciuta nel riempitivo (tutto il contrario del pluricitato Proust). La brutta performance (perché non strutturalmente dialettica bensì accondiscendente con il tema) è anzitutto quella di Sorrentino, che sembra volerci (di)mostrare quanto possa essere bravo ad architettare la fuga nel suo amato nulla. Meglio allora estetizzare la paura del vuoto (e della responsabilità) che interrogare problematicamente lo spettatore sul che fare per attraversare la crisi. La grande bellezza, in questo senso, è il prodotto medio d’autore che ci illude di farci partecipi di un’esperienza estetica e critica della realtà (in crisi), quando invece non fa altro che assolverci narcisisticamente tutti (il monologo contro l’intellettuale di sinistra – un coktail di Barbara Palombelli e Concita De Gregorio come Gambardella lo è di Raffaele La Capria, Jerry Calà e Roberto D’Agostino – è in questo senso esemplare). Usare poi Roma come culla della decadenza sparpagliando all’uopo preti, suore e terrazze, è operazione provinciale e francamente anacronistica – Fellini, a suo tempo, tramite alcune scene brevi ma eloquenti l’altra sponda del fiume lungo cui scorreva la dolce vita ce la mostrò (e con quale ferocia e poesia!). Eppure alcune cose buone ci sono, seppur mostrate in modo talmente roboante da perdere in autenticità, come quando Jep Gambardella, durante il funerale del ragazzo suicida, si lascia andare a un caldo pianto liberatorio, in tal modo suggerendo l’organico liquido vitale che sgorgando sul viso smaschera la negazione e la rimozione della morte insita nei divieti borghesi (ed edonistici) di versare lacrime. Ma è solo un momento arrossato di un film che finisce per lasciarci infreddoliti. Piccola aggiunta: alla domanda del perché faccia film, Sorrentino ha risposto di “cercare il padre” nella deprimente consapevolezza che non lo troverà mai. A questo punto, come nota a margine condiscendente, potremmo metterci uno dei tanti articoli di Massimo Recalcati sull’evaporazione del padre quale principale causa del disordine corrente – ché tanto la crisi è solo una rappresentazione mentale. E sarebbe l’ennesimo spostamento indietro della realtà. |
brava Alessia!
quando ho pensato che il film fosse inconcudente sottintendevo più o meno (meno senz’altro…) le cose da te espresse
ciao!
Assolutamente si! E si ride molto! .)
“La risata implica lo sforzo di una ricerca. Minima, ma pur sempre una ricerca, coadiuvata da un talento. Qui nessuno ne vuole più sapere niente del talento e del minimo sforzo. Che poi sono un’endiadi abbracciata. Sforzo e talento sono diventati parolacce. Per questa ragione, ridono tutti per finta…. Che poi, la risata, diciamolo, è la forma suprema di cultura.” (cit. P.S.)
Sorrentino sa ridere: dei miti contemporanei
le pernacchie alla Abramovic e a Madre Teresae di noi. E quanto ci sarebbe bisogno di prenderci un po’ meno sul serio,tutti. Ed è provvisto di una poetica personale: sa guardare in maniera “scafata”. Ma più che la dolce vita o Roma di Fellini a me la Grande Bellezza ricorda Il ventre dell’Architetto di Greenaway. In realtà si è sottolineato la grande bellezza di Roma contrapposta alla grande bruttezza degli italiani, ma a mio parere non è questa la chiave del film. Il film sottolinea quanto bellezza e bruttezza si confondano, e quanto la quotidianità di qualsiasi umano possa diventare miracolosamente bella; la coatta ferilli, la gente al bar, la cassiera del caffè si possano trasfigurare in qualcosa di meraviglioso, persino la persona più umile e apparentemente imbecille. Ma noi ce ne dimentichiamo, e preferiamo fare trenini culturali inutili, che non vanno da nessuna parte, appunto. Ora però non vorrei nemmeno ritrovarmi ad essere anche io nel gurppo degli insegnanti di cui a “ lo Sforzo” di Bill Collins:“Che cosa sta cercando di dire il poeta?”totalmente d’accordo con Alessia!