Perchè sì

Perchè no

 di Anne Preckel

Un film sulla felicità? Per i due spettatori che lasciano il cinema prima di me (“realisti”, presumo), sembra essere una cosa vietata. Io non sono d’accordo. Non è solo perché la protagonista di La felicità porta fortuna mi è simpatica, neanche perché fa bene ridere tanto al cinema. Invece, penso proprio che La felicità porta fortuna, in concorso all’ultimo Festival di Berlino dove ha vinto L’Orso d’argento per la miglior attrice (Sally Hawkins) e ora nelle sale, è un film coraggioso e importante. La commedia inglese di Mike Leigh (Vera Drake, Naked, Segreti e bugie), premiata per i suoi drammi sociali, è l’osservazione precisa di un’eroina del quotidiano, una che si regala al mondo senza fatica, stimolando le persone intorno a lei con empatia e originalità. In tempi in cui nelle società occidentali si parla molto della nuova precarietà e del futuro insicuro dei giovani, di edonismo e della mancanza di bambini, questo film, dedicato ai giovani e indicato dal regista come “vero, quasi un documentario”, si può accogliere come un appello alla “resistenza sentimentale” in un’età barbarica dove tutto, inclusa la percezione della propria identità, sembra essere difficile.

La protagonista di La felicità porta fortuna (il titolo inglese vuol dire sentirsi “leggero”, “senza peso”), è la trentenne Pauline (un’ eccezionale Sally Hawkins) o “Poppy”, che vive e lavora a Londra come insegnante in una scuola elementare. La giovane, affamata di vita, affronta avventure e difficoltà quotidiane con grande umorismo: si diverte a fare battute e a prendere in giro la gente, “gioca” in continuazione, non manca mai di autoironia. Come insegnante è brava perché è curiosa, creativa ed empatica, come amica e sorella è affidabile e comprensiva. I primi problemi avvengono quando Poppy prende lezioni di guida e contemporaneamente, fino a quel momento felicemente single, s’innamora dello psicologo della scuola dove lavora. L’istruttore di guida, confuso e allo stesso tempo affascinato dal modo di fare della giovane, reagisce con gelosia e rabbia, manifestandole i propri desideri e le proprie debolezze. Lo scontro tra i due insegnanti, così diversi, fa capire che la frase “Driving well is having no accident – Guidare bene significa non avere incidenti”, scritta sulla macchina della scuola guida come un mantra della “giusta vita”, è una verità molto relativa: alla fine sarà l’allieva caotica e impulsiva a dare una lezione all’istrutture di guida, dimostrandogli che “le regole” di per sé non servono, a meno che non vengano confermate nella loro validità dall’interazione umana.

Non do giudizi moralisti”, così dice il regista Mike Leigh dei propri film, “a me non interessa dare delle sintesi. Pongo delle domande allo spettatore, lo metto in difficoltà, qualche volta butto le bombe, ma non do risposte. Mi rifiuto di dare risposte, non le conosco.” Le bombe in questo film non ci sono, perché al di là di alcune avventure divertenti e delle battute spiritosissime (che sono senza dubbio la forza del film), tra Poppy e le sue amiche in realtà non succede molto. “La felicità è vera solo quando è condivisa”, scriveva il protagonista tragico del film Into the wild prima di morire solitario nelle terre selvagge. Poppy non sarà mai una figura tragica. Non ha bisogno di vivere gli estremi o di cercare la verità fuori dalla sua società per capire che la felicità deve essere condivisa, lo fa ogni giorno tramite il suo semplice essere happy-go-lucky. Questa piccola donna, che a prima vista sembra un po’ folle e ingenua, caotica e irresponsabile, in realtà è capace di vivere la vita in armonia con se stessa e con l’ambiente nonostante le difficoltà. La felicità porta fortuna in questo senso è una risposta alla prospettiva cinica di Arcand (Le invasione barbariche, L’età barbarica), è l’omaggio a una felicità condivisa, reale e soprattutto non colpevolizzata.

di Chiara Lenzi

Una giornata festiva, fredda, ma assolata: cinema o passeggiata? Cinema o giretto per i negozi (che è tanto che non vado e si stanno tutti addobbando per le feste)? Mi dico che sono una cinefila, che il sole tanto sta per tramontare e che presto scenderà il gelo… E così la mia scelta cade su un cinema centrale, affollato di signore bene di mezza età e qualche ragazzo. Il film sorteggiato è La felicità porta fortuna: Mike Leigh è una garanzia e i suoi film si vedono a scatola chiusa. E poi devo ammettere che il titolo e il manifesto con quella ragazza dal sorriso contagioso era un vero canto delle sirene, quello che sembrava volerci in una giornata di festa, quando non si ha voglia di qualcosa di triste, di angosciante o di troppo emotivamente impegnativo. Ero un po’ sospettosa sul fatto che Mike Leigh avesse fatto una commedia (come citava la sintesi dei tamburini) ma poi ho pensato, perché no? Curiosa, attendo l’inizio del film: si spengono le luci, qualche pubblicità, un trailer (Il giardino di limoni in uscita questo weekend e da vedere – come ha sottolineato una signora alle mie spalle). Inizia il film con una fantastica carrellata a seguire la ragazza sorridente del manifesto, vestita colorata e divertente (un po’ alla Pippi Calzelunghe) eccentrica e dall’aria simpatica che pedala per le vie di Londra: pedala, pedala, e mi viene spontaneo pensare con terrore ad Amelie! NO!!!! Amelie no!! La visione del film mi aveva lasciato con una tristezza infinita, un macigno sullo stomaco ed io non avevo voglia di uscire con quello stato d’animo dal cinema… Ma ormai è fatta sono seduta e non posso scappare, e poi penso che Mike Leigh non è Jean-Pierre Jeunet e che non può aver girato una Amelie in chiave anglosassone. Gettando ogni pregiudizio mi tuffo nella visione.  Ben presto mi devo, purtroppo ricredere. Come Amelie, Poppy (questo è il nome della ragazza che non a caso ricorda Mary Poppins) non mi fa simpatia fin dalle prime battute quando cerca di attirare in tutti modi le attenzioni di un introverso e un po’ scorbutico commesso di una libreria: perché tanto agitarsi a cercare di fare conversazione con lui, se non si ha intenzione di acquistare un libro o se non vuole conoscerlo? Come quei bambini capricciosi che strepitano finché non si dà loro attenzione, così per il solo gusto di avere attenzione. So che la simpatia o antipatia del personaggio non può essere un metro di giudizio, ma tutto il film ha al centro un unico personaggio, Poppy appunto, che viene seguita nella sua quotidianità per alcuni giorni e quindi è impossibile prescindere da quello che il personaggio è e trasmette. Infatti, seguiamo Poppy a scuola, nel tempo libero, con le amiche con cui si sballa in discoteca nel weekend, in visita dalla sorella, a lezione di flamenco in un susseguirsi di piccoli gesti quotidiani e d’incontri. Lo sfondo è quello amato dal regista, la working class inglese, e le pennellate veloci ma profonde, con cui tratteggia i personaggi minori sono da vero maestro. Come il bambino allievo di Poppy che da tranquillo ragazzino diventa violento coi compagni perché nasconde una violenza subita, o l’insegnante di flamenco che improvvisamente parlando dell’anima della danza scoppia in lacrime rivelando un dramma sentimentale vissuto, un tradimento subito, o i bambini descritti dalle insegnanti come “parcheggiati” davanti alla playstation tutte le domeniche, anche quelle soleggiate. O, infine, l’istruttore di guida che paranoico, un po’ razzista, ha paura del diverso e vede pericoli dietro ogni curva. Il quadro di sfondo che ne viene fuori non è certo idilliaco: barboni, razzismo latente, problemi familiari, madri che non si sentono, rapporti difficili, paura dell’altro… E da questo sfondo grigio si staglia Poppy con i suoi colori, le sue mille smorfie, il suo sorriso, con la sua apparente lezione di ottimismo con cui affrontare la vita, ma qualcosa non mi convince appieno. Diciamo subito ad onor di cronaca che alla fine del film non sono uscita triste come da Amelie, ma neanche di buon umore e le risate della commedia sono vissute e presenti sullo schermo, piuttosto che vissute da noi spettatori (tutt’al più scappa un sorriso). Il totale ottimismo di Poppy non mi convince, lasciando una sensazione di non funzionante, di qualcosa di diverso che sta dietro la facciata sorridente. Novella Candide, il sorriso con cui apparentemente Poppy affronta la vita non è vero ottimismo e vera apertura all’altro, come può sembrare a prima vista, ma piuttosto sembra la risata imbarazzata di chi non sa come reagire a una situazione, e che quindi cerca di sdrammatizzare sempre e comunque perché difficile da sopportare. Non si può sempre ridere, prendere in giro tutti e tutto rischiando di mancare di rispetto a chi a ti sta di fronte. Le rubano la bicicletta e lei è contenta, dice che è dispiaciuta solo “di non averla salutata”, ma le viene da ridere… Ma non è almeno un pochino dispiaciuta che le abbiano rubato il mezzo di trasporto a cui era tanto legata? L’apparente apertura agli altri (che ha con i bambini a cui insegna – ed è infatti un’ottima insegnante) diventa cecità quando non ascolta l’altro perché troppo presa da se stessa, dalla propria voglia di protagonismo. Non comunica veramente con la sorella incinta (chiaramente problematica, visto come schiavizza il marito). Non ascolta e prende in giro continuamente l’istruttore di guida che le chiede concentrazione e rispetto verso il suo ruolo d’insegnante e, troppo presa da se stessa non si rende conto che lo sta provocando, che sta giocando coi suoi sentimenti.

Anche l’incontro con il barbone che sembra un’apparente apertura in realtà è un intermezzo un po’ a sé, una divagazione inutile di sceneggiatura: perché vaga di notte in periferia, in mezzo al cantiere? Cosa porta l’incontro a lei o all’uomo? Sono quindi il suo egocentrismo e la superficialità con cui affronta la vita che servono per affrontare il grigio quotidiano? Non ne sono convinta. Piuttosto credo che un vero sorriso, un vero ascolto dell’altro e una vera apertura servano per affrontare il nostro presente. La perplessità con cui esco dal cinema aumentano quando leggo le recensioni sul film e sono tutte positive, tutti sono affascinati e attratti da Poppy che sembra l’esempio da seguire per affrontare il grigiore della vita: perché su di me fa l’effetto contrario? Perché non trovo nel film scene esilaranti come scrivono tutti, ma solo rari momenti in cui scappa un sorriso, ma non una risata?

5 Replies to “La felicità porta fortuna”

  1. mi hai fatto proprio venir voglia di andare a vederlo, che prima di leggere la recensione mica mi andava tanto!

  2. Sono completamenta d’accordo con Chiara che analizza molto bene l’incoerenza di questo film.
    Amo molto il lavoro di Mike Leigh purtroppo, anche a mio avviso, il personaggio di Poppy non é convincente, anzi direi che arriva ad essere spesso alquanto irritante, caricaturale ed incongruo. Un premio di interpretazione a Berlino, perché?

  3. Assolutamente d’accordo con Chiara e Maria Giovanna. 150 minuti di nulla. Una protagonista che sembra e si comporta da deficiente, che non fa mai una riflessione, non dico “profonda”, ma almeno “sensata”, o semplicemente che ti rimanga in testa per più di 2 minuti. Perfettamente comprensibile l’istruttore di scuola guida, maniaco sì, ma in un certo senso più coerente. E poi, fossi stato io l’istruttore di scuola guida, una scema come quella dopo la prima lezione la mandavo a quel paese. Questo tanto per dire di un “particolare”, che però, a guardare il minutaggio, aveva un ruolo importante nel film.
    Mi immagino il sudore e la fatica dei “dialoghisti” !!
    E che fatica per lo sceneggiatore, alle prese con un film così “intenso” !
    Appunto: “Un premio di interpretazione a Berlino, perché?”
    Insomma, 8 euro (anzi, 24: eravamo in tre) che farei pagare agli autori di certe recensioni sui giornali.
    Accidenti, c‘è la “responsabilità del produttore”, c‘è la “responsabilità del pubblico dipendente”, quella del magistrato, quella del commercialista, del notaio, dell’autista. E perché non c‘è quella del recensionista cinematografico ?
    Saluti!

  4. La desiderata “coerenza” mi fa pensare allo forzo dell’istruttore di guida d’insegnare “le regole”. Perchè è difficile d’accettare Poppy ed il suo modo d’essere? Poppy è un jolly e, come sappiamo, i jollies solo sembrano difficenti ma in realtà smascherano. Se questo film fosse stato una messa-in-scena dell’ambiguità, dell’auto-riflessiva, della “maturita” di una donna (caratteristiche che, ammettiamolo, vanno di moda e che paradossalmente ci tranquilizzano), sono sicura, avreste potuto accettarlo meglio. Perchè dovrebbe essere più credibile l’abisso dietro il sorriso che il sorriso stesso? Coerenza, bene, ma rispetto a che cosa? Perchè più “coerente” e “convincente” una persona che sa seguire solo “le regole” che una persona che sa anche giocare (vi ricordo che per fare l’insegnante ad una scuola elementare ci vuole almeno tutte e due: regole e gioco, Apollo e Dionysos). Più interessante, quindi, che l’esuberanza di Poppy (il jolly è l’esagerazione, è la sua natura) trovo il vostro rifiuto dell’esuberanza che interpretate come “nulla” o “finta”.

  5. più che altro in alcune circostanze il protaognista sembra non considerare le esigenze degli altri, pare che esista solo il suo punto di vista, che solo il suo sia valido.

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