Riprendiamo il nostro viaggio nel cinema di Bellocchio con Matti da Slegare (1975), un film documentario che mostra una serie di casi clinici estratti dal contesto dell’operazione di risanamento psichiatrico iniziata con il ’68. Mai più manicomi lager, sbarre, interventi punitivi, infermieri terroristi, emarginazione feroce del malato. Sono gli anni dell’inizio di una sperimentazione che porterà a grandi risultati ed è questo un tema caro a Bellocchio: la ribellione dalla schiavitù gestita dall’autorità e dal potere costituito. L’atteggiamento dei registi di questo film militante al servizio della comunità è positivo e speranzoso, fiducioso nella parte buona dello Stato che lotta per reinserire i diversi nella società.
Arriviamo così a Marcia trionfale, un altro conflitto fra l’uomo forte e violento (visto già in altri film dell’autore) e l’intellettuale riflessivo, sensibile e di buone maniere, che nasconde la pavidità dietro la ragione e i costumi civili. Sono di fronte, in una caserma italiana, la recluta Paolo Passeri (un giovane Michele Placido) e il capitano Asciutto (Franco Nero). Il ragazzo è un timido laureato in lettere; l’altro è un ufficiale duro e violento, convinto che sotto le armi si tempri il carattere dell’individuo. La recluta soffre l’arroganza dei superiori e il nonnismo dei commilitoni più anziani. Non meno di lui, però, sembra soffrire il capitano, che non sopporta di vedere il giovane così remissivo e succube di quel clima violentemente “sano”, secondo l’ufficiale. Perciò lo incita a ribellarsi, lo prende a pugni. Ed è così che il giovane pare comprendere la lezione e si sveglia d’improvviso dal suo torpore fisico. Paolo inizia a vendicarsi dei compagni e ottiene la stima del capitano, che addirittura gli affida il compito di pedinare la moglie, sospettata d’infedeltà. Paolo Passeri impara a fare la spia, fino a quando la donna, ammiccando al giovane con mestiere, ottiene la sua complicità. In breve tempo Paolo ne diventa addirittura l’amante. Così Giovanni Grazzini, sul Corriere della Sera, commenta il percorso di vita compiuto dal protagonista: “Il tragitto compiuto dal giovanotto sembra a questo punto completo: partito dalla viltà, Passeri è giunto all’inganno” [2]. Ecco il risultato di un’educazione aggressiva, ecco un padre insicuro e autoritario che finisce meritatamente per essere tradito. Il soldato per forza recita la devozione al superiore finché la donna scappa di casa per la disperazione dell’ufficiale. Passeri abbandona il padre/capo/superiore e lascia che venga ucciso da una sua sentinella. Con questo film Bellocchio torna ad osservare i protagonisti con distanza, senza parteggiare per nessuno di loro, usandoli come paradigmi per un discorso che va ben al di là della realtà militare. Si tratta dell’ennesima drammatizzazione bellocchiana del rapporto fra autorità e obbedienza, della sfida tra forti e deboli. È il ritratto incrociato, ambientato in caserma per sovrappiù di espressività, di due nevrosi in cui si esprimono la voluttà di autodistruggersi attraverso il rifiuto della carità e l’urgenza di affermare la propria libertà divorando ogni immagine paterna.
Segue, per Bellocchio, un periodo speso tra adattamenti letterari (Il gabbiano da Cechov, 1977) e ritorni a tematiche antiche (Gli occhi, la bocca, 1982), inframezzati, nel 1980, da Salto nel vuoto. E’ un film in cui torna la casa borghese de I pugni in tasca, stavolta sotto forma di appartamento romano. Qui vivono i fratelli Mauro e Marta, che ripropongono il tema della famiglia, stavolta sdoppiata in due facce: quella nevrotica e inquieta dei due fratelli borghesi, e quella più pacificata della domestica Anna e di suo figlio Giorgio. Tornano pure i temi della malattia e della ribellione, attraverso Marta, che, vicina alla menopausa, mostra segni di depressione e schizofrenia. Il fratello Mauro si convince che la donna sia sull’orlo della pazzia e del suicidio e immagina di poterla salvare attraverso una persona, un attore di strada con il quale, però, Marta non riesce a comunicare. Saranno invece a salvarla una ribellione, l’amicizia di Anna e soprattutto l’abbandono di ciò che la opprime: il claustrofobico appartamento e l’onnipresenza del fratello borghese e conformista, che finirà per suicidarsi gettandosi nel vuoto. Per Marta forse…c’è un risveglio, la possibilità di ricominciare a vivere.
Gli anni che seguono segnano per Bellocchio l’inizio della contraddittoria e complessa collaborazione con lo psicoanalista Massimo Fagioli. Sono anni di scavo nell’inconscio e di una sentita sperimentazione narrativa. Vi si può leggere un desiderio (non nuovo) dell’autore di incontrare forme linguistiche alternative, per dare, probabilmente, maggior importanza alle immagini rispetto alle parole. Il primo film che nasce è Il diavolo in corpo (1986) e l’ultimo è Il sogno della farfalla (1994). Il primo racconta una storia di amore e distruzione, fin troppo esplicita nel mostrare il sesso. Il critico Roberto Escobar, in proposito, ha parlato della differenza tra erotismo e pornografia, prediligendo di gran lunga la prima categoria e mettendo questo film di Bellocchio nella seconda. Ma il film è anche altro: è quasi un trattato di psicanalisi e conferma, nel bene e nel male, i temi ossessivi dell’opera bellocchiana: l’attacco alla famiglia borghese, che osserva, scartando le possibilità di rinascita e lasciando che le cose avvengano per compromesso. C’è poi l’attenzione ai tempi che corrono, con lo scenario di una Roma inquieta negli anni di piombo. In questo senso il film registra con una certa validità la confusione interiore di quel tempo di subbuglio politico, sociale ed esistenziale. E c’è, poi, ne Il diavolo in corpo, la scelta di una protagonista che rifiuta un matrimonio senza amore vero, puro, che sarebbe sinonimo di una forma di suicidio e la resa incondizionata ad una mediocrità borghese. Giulia, la protagonista, sceglie un amore puro e un po’ folle, quello per un giovane studente, che per certi versi le consente di vincere gli impulsi autodistruttivi e di ribellarsi al falso convenzionale. Forse la donna guarirà dal suo sordo dolore.
a ribellione familiare è centrale anche nel film Il sogno della farfalla (1994), dove il giovane, fragile e puro protagonista, abbatte tutti i canali comunicativi convenzionali con la sua famiglia e con il mondo intero. E’ appena adolescente quando decide di non comunicare più attraverso la parola e di esprimersi esclusivamente attraverso i classici teatrali. E’ la sua forma di ribellione estrema, implodente e silenziosa. Il contesto familiare proverà a ricondurlo alla normalità, ma senza successo. Per il giovane è forse quello l’unico modo per sottrarsi al caso che gira perpetuo intorno a lui.
Il 1996 è l’anno de Il principe di Homburg. Possiamo riassumerne così la trama e piegarla a ciò che ci interessa: il principe sconfigge il nemico in battaglia, ma dal momento che ha anticipato il segnale di attacco, suo zio, il capo supremo, l’autorità
;, lo condanna a morte. Poi lo grazierà, dandogli in sposa la nipote che ha intercesso per lui, soltanto quando il giovane accetterà l’ineluttabilità del principio dell’obbedienza assoluta, giungendo ad approvare perfino il proprio castigo. Bellocchio commenta così il film: “Il principe di Homburg ha accettato la legge del padre, ha chinato la testa, si è integrato al potere assoluto”. Subito dopo, però, il regista aggiunge queste parole: “Nel conflitto con il padre sovrano, il giovane perde per sempre. Io mi batterò fino alla morte perché ogni figlio si liberi dal proprio padre”. E non basta, ecco altre parole dell’autore, che utilizziamo per chiarire meglio il senso del film all’interno dell’opera di Bellocchio: “Naturalmente non ci deve essere un’uccisione materiale, che si porterebbe dietro il senso di colpa. Il principe di Homburg è un romantico idealista e sognatore che lotta per i grandi fini e che, quando il sovrano lo condanna rispettando alla lettera il senso del comando, viene ucciso nell’anima, venendo meno la sua identità“. Con questo film imponente, notturno ed onirico, il regista continua uno dei suoi discorsi preferiti: il rapporto tra padre e figlio, tra soldato e sovrano. Arriviamo così a La Balia, il bel film del 1999 liberamente tratto da una novella di Luigi Pirandello. La psichiatria, la pazzia implosa e la politica di massa tornano ad essere di nuovo tematiche bellocchiane, ma la pellicola è soprattutto la storia di due figure femminili antitetiche. Da una parte una signora borghese, intellettuale e nevrotica (Valeria Bruni Tedeschi) che non riesce ad allattare il figlio appena nato ed anzi prova per lui una segreta ripulsione e freddezza. Dall’altra una giovane balia contadina, legata a un detenuto politico, che ha una grande intesa col suo bambino appena nato. Se la prima donna è bloccata dall’ansia di perdere ciò che ha e per questo rinuncia a vivere la vita con emozione, la seconda nutre una difficoltà comunicativa radiosa e viva, sebbene possa sembrare apparentemente meno istruita su come affrontare la vita stessa. La prima non riesce ad amare; la seconda è più libera di farlo. Riassumiamo i due caratteri protagonisti del film con le parole di Roberto Escobar: “La prima donna, per quanto socialmente protetta, è angosciata, spaventata dal ruolo di madre che l’aspetta. Non desidera un figlio: lo subisce e lo teme. La seconda, molto più esposta e all’apparenza molto più debole, ha invece una sicurezza e una forza che, all’inizio implicite, si fanno poi sempre più consapevoli, coraggiose“. [3] Ed è lo stesso critico a spiegarci le motivazioni sociali che soggiacciono a questa diversità: “In Vittoria non c’è solo la paura della maternità, della nuova vita che s’annuncia, ma c’è proprio la paura della vita. È per paura che Vittoria s’è sposata: per desiderio di normalità, di protezione nel mimetismo d’una condizione sociale, d’un ruolo. Ecco l’ennesima invettiva di Bellocchio contro le convenzioni borghesi che conducono all’infelicità, al dolore, alla sterilità sentimentale. L’ingresso della proletaria Anna nella casa di una più alta classe sociale, provoca un disordine efficace che si trasforma in luce, che apre nuove finestre, illuminate di speranza e ossigeno. Anche Anna è impaurita dal nuovo, ma la sua paura è aperta, curiosa, più libera di quella della donna borghese.
Ci avviciniamo alla conclusione di questo avventuroso e lungo viaggio nel cinema di uno dei più grandi registi italiani. Scavalchiamo il millennio ed arriviamo ad uno dei film più belli di Marco Bellocchio: L’ora di religione (2002). Per la prima volta il protagonista è un padre, un genitore valido, maturo, cosciente e lucido. Si chiama Ernesto Picciafuoco ed è un pittore talentuoso che sopravvive illustrando libri per bambini. Il suo quotidiano è sconvolto dalla notizia che la Chiesa ha avviato, su richiesta della famiglia, un processo di canonizzazione della madre uccisa da un altro figlio, da anni ricoverato in una clinica psichiatrica. Picciafuoco (un grande Sergio Castellitto) è ateo e non sa se assecondare il volere dei parenti che vogliono una santificazione per vantaggi economici, oppure combattere la sua battaglia in nome della verità e dell’onestà. Il pittore è ben cosciente della falsa fede della sua famiglia, ruotante esclusivamente sull’avidità e sull’interesse materiale. La famiglia, la solita famiglia bellocchiana in cui comanda l’ipocrisia che impregna tutti i rapporti sociali, lo implora di dare la sua approvazione. L’artista, però, combatte per mantenere viva la sua integrità ideologica. Sa che la sua incapacità di amarsi nasce dall’insensibilità e dalla freddezza di quella madre che ora i parenti vorrebbero beata. Picciafuoco entra in crisi, mentre intorno a lui si muovono la sua famiglia e l’ambiente delle gerarchie vaticane. Così Roberto Nepoti descrive l’angoscia del protagonista: “Il pittore rischia di lasciarsi avvolgere da quel clima insinuante, limaccioso e mellifluo, capace di neutralizzare qualsiasi voce dissidente in un bigottismo di maniera sotto cui si celano cinismo e culto dei propri interessi. Ma è proprio qui che l’uomo dovrà compiere una scelta radicale, mettendo in gioco la propria identità”. [4] Alla fine Ernesto sceglie di essere libero, di non presentarsi al processo di beatificazione, di viversi l’amore per il figlio e di chiudere per sempre con un passato lacerante con il quale i conti erano ancora aperti. E se L’ora di religione è un film sulla raggiunta e sofferta libertà dei figli, una libertà di pensiero che combatte contro i dogmatismi e gli scopi materiali, il successivo Buongiorno, notte (2003) esalta un sentimento vero che va oltre un’ideologia altrettanto sentita e potente. Bellocchio crede al desiderio intimo e contrastato di una donna che, persino in un momento delicato come quello della prigionia di Moro, per molti versi una figura paterna, si abbandona al desiderio di amore. Un amore che, schiacciato dalla potenza dei fatti, della storia, sopravvive e si manifesta d’improvviso attraverso il sogno. Ed è a questo sogno che il regista concede spazio, perché è in questo amore fuori tempo massimo e fuori dalla realtà, che stanno la salvezza e la strada. Di sogno, infatti, si alimenta anche il successivo protagonista bellocchiano, Elica (Il regista di matrimoni), che abbandona le sue avare e sterili sicurezze borghesi per un viaggio muto e vagabondo verso le profondità della sua anima. Inizia il viaggio e subentra il sogno a renderlo possibile ed efficace. Tutto è sospeso tra vero e immaginario, e ciò consente al protagonista di scontrarsi con i suoi condizionamenti, divenuti da tempo insopportabili. E’ un viaggio catartico e magico, felliniano. Il regista in crisi si scrolla di dosso l’ossessione opprimente de I promessi sposi a cui sta lavorando senza desiderio ed annusa l’odore della fantasia creativa che gli era propria. Che la ribellione inizi! Che i dogmatismi ata
vici vengano derisi e smascherati! Che la rabbia salga verso la ragione! Che si frapponga tra sè e la mediocrità, l’istituzione, la famiglia, le regole, l’ordine costituito. Partano le dolorose domande, le confessioni intime e silenziose. Si liberi lo sberleffo, l’osservazione distaccata ed emotivamente partecipata. Si legittimi il desiderio dell’artista in crisi di tornare a respirare purezza e verità. Ora c’è la possibilità di non nascondersi nulla, l’uomo perso inizia a ritrovarsi e ritorna all’immaginazione, vuole solo ciò per cui sente passione. Quella di Elica è una solitaria resistenza fatta d’azione, un enigmatico conflitto con il mondo rappresentato dal potere delle istituzioni. Bellocchio ripropone la solitudine dell’eretico chiamato a proteggere l’integrità e la coerenza del proprio autentico sentire. Elica consegnerà questa conquista alla donna con cui fugge, come in L’ora di religione faceva col figlio.
Dopo uesto torbido fiume di parole, sarà forse più facile capire l’innamoramento bellocchiano per Ida Dalser, nel validissimo e recente Vincere. E’ la storia di una donna indomita, tragica, che rinuncia alla sua salvezza fisica e all’amore per il suo unico figlio, in nome della verità e di un altro amore più grande, quello per un uomo che diventerà drammaticamente uno dei più potenti della Storia: Benito Mussolini, il duce, l’ideologo e il capo del Fascismo. E’ la storia di una donna che crede in una sola forma di libertà: totale, senza compromessi, menzogne o calcoli. E’ la storia di una ragazza borghese che si innamora di un uomo perché si accorge del suo carisma e perché condivide le sue idee rivoluzionarie. Una ragazza intelligente che perderà tutto ciò che ha a causa di quell’amore fatale, folle e sbagliato. E’ una donna di cui Bellocchio non poteva non innamorarsi, vista la passione dell’autore per le figure ribelli che ascoltano le proprie passioni, scartando le ipocrisie razionali facili prostitute dei sistemi politici e culturali. Non poteva non pensare, questo nostro orgoglioso, colto ed irrequieto maestro, di trasformare la vicenda dolorosa di questa donna schiacciata dalla Storia, in uno dei suoi personaggi più potenti. Ecco il destino tragico di una donna che rappresenta quello di un intero paese, incrociando la sua vicenda ad un mostro che procede spedito e incontrastabile, autoritario come nient’altro, lungo tutto il film. Schiacciati entrambi da un uomo che guarda sempre avanti, quando fa l’amore in silenzio, quando immagina il futuro dalla finestra, nudo e quando muove il viso in maniera innaturale conquistando il favore delle masse. E’ la storia di Ida Dalser, sconosciuta eroina romantica, uccisa dal fascismo e riesumata dal silenzio della Storia grazie alla determinazione di un grande e vivissimo regista italiano.
Ribellione, coerenza, rispetto per la libertà, odio per l’ipocrisia, malattia genetica della borghesia, odio per l’autorità sorda e cieca, egoista, passione per l’animo umano, per la battaglia contro le convenzioni, che possono portare alla pazzia. Sono queste, crediamo, alcune parole chiave nel cinema di Marco Bellocchio.
[2] Giovanni Grazzini, Il corriere della sera, 18 marzo 1976
[3] Roberto Escobar, Da Il Sole 24-Ore, 30 maggio 1999
[4] Roberto Nepoti, Da La Repubblica, 20 aprile 2002