E’ il 1965 quando questo giovanotto piacentino di ventisei anni fa invecchiare d’un sol colpo il vecchio e il nuovo cinema italiano di quegli anni. I pugni in tasca sconvolge, qualcuno dice, come fece Ossessione ventitrè anni prima, nel 1942. Perché è un film nuovo per linguaggio e perché dissacra ogni retorica sulla realtà della famiglia media italiana. E’ feroce, realistico, dinamitardo ed orrorifico questo film, apologo di rottura e di scoperta, figlio di quegli anni ’60 carichi di energia vitale, non solo cinematografica. Il primo personaggio di una lunga stirpe bellocchiana lo incontriamo qui e si chiama Alessandro, anzi Ale. E’ vestito da uno svedese ribelle di nome Lou Castel e vive in una casa sulle colline attorno a Piacenza, insieme a tre fratelli e a una madre cieca, tutti membri di una famiglia borghese disastrata. Il padre non c’è, e lo sostituisce, per modo di dire, il fratello maggiore: un mediocre, integrato, cinico, fisicamente normale. L’unico, del resto, in salute della famiglia, perché Ale è epilettico, suo fratello Leone è ritardato e la sorella Giulia è malata. Il disordine familiare regna, anche sentimentale: strani amori nascono tra i componenti del nucleo e Ale nutre un forte desiderio di liberazione. Il giovane cerca una disperata via d’uscita, sogna una liberazione psicologica totale, altrimenti quel caos infernale andrà avanti per anni, per sempre. Allora tenta di abbattere il mostro borghese produttore di tale risultato: via i sacri doveri, via gli oggetti della memoria, via la madre, uccisa, e via il fratello malato, ucciso anche lui.
La sorella Giulia gli è complice per un’ammirazione che sfiora l’amore. Ale sconfigge tutto, ma non l’angoscia che diventa progressiva e che lo porta all’autodistruzione. La speranza e la rivolta sono disilluse ed ecco la morte giungergli in soccorso, offrirgli l’unico sbocco possibile. La sua vicenda si trasforma in una rivolta tragica. Il giovane è cosciente del suo dramma e non lo ignora attraverso il compromesso, come fanno, invece, i protagonisti del successivo La Cina è vicina (1967): virata bellocchiana verso la commedia, tentativo apprezzabile e non del tutto riuscito di satira mordace. Un Bellocchio che si “accontenta” di dissacrare i personaggi lontani dalla sua interiorità ribelle fino in fondo. Citiamo Moravia: “Con i Pugni in tasca il regista si identificava con il protagonista; qui non si identifica con nessuno; è presente semmai nell’asprezza dell’osservazione”. Tuttavia, pur non amando e non flirtando con i protagonisti del film, Bellocchio rielabora i temi dell’ipocrisia borghese, della corruzione familiare e della sordida provincia italiana, già centrali ne I pugni in tasca. Prendiamo ancora Moravia, quando, alle prese con La Cina è vicina, inizia a individuare le tracce della poetica bellocchiana: “Il regista ha una sensibilità per i rapporti e l’intimità della famiglia, rabbiosa, dolente e quasi ossessiva”. Ma stavolta, un Bellocchio ben dentro il suo tempo attacca anche l’estremismo politico di quegli anni immediatamente precedenti la rivoluzione, compreso il falso riformismo del centrosinistra, l’eterna falsità borghese e certo finto rivoluzionarismo di allora. Ritorna la cittadina di provincia, stavolta romagnola, quella di un giovanotto ambizioso iscritto al Partito Socialista Unificato, il quale però, preda di piccoli interessi e convenienze, diventa galoppino di un professore futuro assessore e perfino amante della sorella di questo. Avrebbe pure una ragazza, questo ragioniere scalatore che per vendicarsi, e non solo, si fa sedurre dal professore in carriera politica. Insomma, non certo personaggi fieri ed eroici, quelli de La Cina è vicina, che descrive un universo amoroso cinicamente venduto al compromesso e alla convenienza materiale, capaci di distruggere l’amore e di sostituirlo con l’ambizione sociale e l’avidità di denaro. E’ un altro film di contestazione, lucido e rabbioso, per citare Fofi, anche se meno preciso, completo, risolto del grande esordio bellocchiano.
I successivi film sparano attacchi a ordini costituiti, a convenzioni sociali e istituzioni varie: il collegio è aggredito con Nel nome del padre (1970), la stampa di regime è il bersaglio di Sbatti il mostro in prima pagina (1972), il manicomio è il luogo affondato in Matti da slegare (1975) girato in collaborazione con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli e la caserma è l’obiettivo da centrare con Marcia trionfale, (1976). Nel nome del padre conferma l’attenzione bellocchiana ad un cinema politico ed è la conclusione di quella che Kezich definisce “trilogia semiautobiografica di Bellocchio”, iniziata con I pugni in tasca e proseguita con La Cina è vicina. Il regista fece questa confidenza al critico Goffredo Fofi: «In collegio volevano fare di noi dei sicuri democristiani, non degli intransigenti reazionari, dei santi… una scuola per vigliacchi dove si insegnava a non credere in nulla». Il film è ambientato nel 1959 e Angelo Transeunti è un adolescente bello, ricco, anticonformista e intellettuale. E’ un individualista, determinato e fanatico, portatore di un’idea decisa e propria, anche se violenta e poco rispettosa dell’altrui libertà. Entra in un collegio per figli di famiglie benestanti, i quali ne usciranno per fare i dirigenti del paese. Gli insegnanti usano metodi superati e dannosi che si scontrano presto con le idee alternative del protagonista, che da buon personaggio bellocchiano, trasforma subito in azione.
Angelo considera ogni società basata sulla repressione e sulla paura ispirate da un modello, e così inizia a combattere la repressione cattolica e il modello (cristiano) che la sostiene. Il collegio è un microcosmo grottesco abitato da insegnanti ipocriti, allievi detestabili e inservienti emarginati, servi sfruttati. Angelo organizza un attacco all’istituzione che si concentra sul vicerettore Corazza, difensore di vecchi metodi e tipico rappresentante del potere. Iniziano l’agitazione degli inservienti e la rivolta dei convittori, che portano a una cupa bolgia istituzionale e repressiva. In Angelo può esserci qualcosa di Bellocchio per la forza delle idee, ma con il passare del film il regista se ne allontana fino a farlo uscire allo scoperto e a prenderne una distanza decisa. Angelo crede in una forma diversa di autorità, nel potere di pochi su molti altri ed è posto a distanza dal regista, aggredito dopo aver fatto i conti col suo fascino. Ci sono altri personaggi nel film, come Salvatore, Tino e Franco, che conservano parti del regista, quasi per un dibattito di Bellocchio con se stesso, citando sempre Fofi, e che probabilmente sono molto pi
ù vicini all’autore di quanto non lo sia Angelo. Sono i primi segni di un interesse del regista piacentino per i personaggi riflessivi e sani, con idee valide e contrastate da una personalità non sufficientemente forte. Il finale del film non lascia molte speranze e prosegue sulla via del pessimismo bellocchiano. C’è di sicuro, tuttavia, in questo film che schiva il cinema di denuncia diretta e che non regala facili delucidazioni immediate, la polemica contro l’istituzione ecclesiastica e contro il potere politico democristiano, nonché l’incapacità del personaggio/regista di scendere a compromessi con il presente.
Segue Sbatti il mostro in prima pagina, rabbioso e incastonato nelle strutture convenzionali del giallo poliziesco. Non fu accolto benissimo questo quarto lungo di Bellocchio, visti gli anni di aperta discussione sul cinema militante, nemico dichiarato di ogni convenzione narrativa. La pellicola fu accusata di schematismo ideologico e spettacolare, nonostante la presenza di un maestoso Gianmaria Volonté, nel ruolo di un imperturbabile mostro mascherato da perbenista comune: un giornalista dai capelli bianchi, con la erre moscia e l’accento lombardo che vuole strumentalizzare un delitto sessuale per gettare discredito sulla sinistra extraparlamentare. Il grande attore era già stato cittadino al di sopra di ogni sospetto nel bellissimo film di Petri una manciata di anni prima e questo aveva pesato sul giudizio di una critica cinematografica italiana molto più severa di oggi. Obiettivo del film, comunque, è un attacco al ruolo politico che può assumere la grande stampa d’informazione ed è palese la voglia dell’autore di arrivare direttamente al pubblico attraverso un affresco politico d’attualità, ben visibile dentro un calibrato poliziesco popolare. Benché maltrattato, il film racconta bene “il clima dell’epoca, il disagio delle istituzioni, l’ansia di un conflitto sociale che di lì a poco sfocerà nella lotta armata, la natura violenta delle forze in campo, l’autoritarismo poliziesco sempre schierato con i poteri forti dello Stato”[1]. Ci sarà spesso spazio, nel cinema di Bellocchio, per la vicenda politica del paese. Non mancano, poi, frammenti di forte importanza storica: il film si apre con il corteo funebre di Giangiacomo Feltrinelli, mentre non lontano un giovanissimo Ignazio La Russa si dà da fare in un comizio anticomunista. E di bellocchiano non poteva mancare nemmeno l’attacco alla chiesa e alla borghesia: in una scena vediamo il totale di una basilica piena di borghesia milanese e, mentre il prete pronuncia la fatidica frase “andate in pace”, il montaggio offre un canale di acqua putrida che porta con sé ogni sorta di rifiuti urbani. L’equazione è borghesia uguale rifiuti e immondizia. Un altro aspetto del cinema di Belloccchio presente nel film è il rapporto/conflitto tra le figure autoritarie, dominanti, forti, e quelle più deboli anche se giuste, possidenti di cose utili e intelligenti da dire. Sono in questo caso i vari personaggi del film che si contrappongono, con molta fatica, al potere del protagonista Volontè.
[1] Maurizio Fantoni Minghella, cinecritica web