[****] – Ci si chiede come abbia fatto Saverio Costanzo ad interiorizzare un romanzo di appena due anni fa, senza dare il tempo al senno di poi di fare il suo giro e dividere le cose giuste da quelle sbagliate, l’eterno dal temporaneo; ma, anzi, situandosi nel bel mezzo del circuito vorticoso dell’attuale contemporaneo, dove gli uni parlano degli altri e ogni cosa acquista valore proprio in virtù di questo “sparlarsi” addosso nel medesimo spazio di vita. Forse sono domande che si pone solo chi è affetto da una rara e patologica forma di lentezza sociale. E, molto più semplicemente (e lo speriamo), è una scelta dettata dal gusto individuale (è inutile stare qui a precisare che il gusto è esso stesso, al di là della nostra più stretta coscienza e malgrado essa, qualcosa di fortemente collettivo, storicizzato).
Dunque La solitudine dei numeri primi di Costanzo, poggia la sua esistenza su una premessa sfavorevole o, più che sfavorevole, rischiosa, esposta ai venti da ogni punto cardinale e, per questo, potrebbe essere facilmente attaccabile. Soprattutto da chi per partito preso (e dichiarato) male si accorda ai successi ampi, alle mode, ai fenomeni di massa. Fatto sta che, superando ogni premessa, è un buon film e, staccandosi da ogni premessa, si parlerà qui del testo-film preso in quanto tale e non come fenomeno traduttivo. Anche se ci troviamo davanti a un titolo che, per quanto metaforico, per fortuna o per sfiga è di natura esplicativa (il primo titolo del romanzo, “dentro e fuori dall’acqua”, avrebbe avallato maggiormente il gusto della scoperta), partiamo alla ricerca di indizi. Lo stampatello celeste acido dei titoli subito chiama in causa per lo meno due mondi: quello dei bambini e quello dell’inquietudine. E studi e studi di ragioni semiotiche, ci portano a dire che in una commedia non siamo. La struttura temporale del film è costituita da quattro fasi: l’infanzia, l’adolescenza, il presente e il post-presente che coincide – bene o male – con la conclusione. Dopo aver denominato i periodi temporali con rispettive date, il film procede con un avanti-indietro quasi continuo, scegliendo tuttavia di innestarsi su una vicenda-cardine (il presente) in cui ha luogo uno degli snodi drammaturgici. L’orizzonte narrativo-tensivo nel quale si muove la vicenda-cardine è il matrimonio di Viola, al quale Alice vuole andare accompagnata da Mattia. Vicenda-cardine al punto tale che ciò che viene cronologicamente prima sembra poi coincidere con la stessa materia della memoria di Mattia, un percorso funzionale alla confessione del suo trauma: film e memoria del protagonista camminano di pari passo. Fine vicenda-cardine: il film continua ancora qualche anno. Mattia deve partire per la Germania, per rimanerci tre anni, ma “tre anni sono sempre”, gli dice lei la sera del matrimonio chiusi in macchina. E infatti lei si ammala perché lui, restando sette anni, resta più di sempre, e lei giace in uno stato allucinatorio che mixa verità e fantasia, alberi dentro le case e pianti di bambini non più in vita, realizzazioni di desideri irrealizzabili. Poi un giorno, lei è magrissima, vestita di un biondo volgare, con tanta matita nera che le sfuma gli occhi, bellissima, ascolta “Bette Davis Eyes”, suonano alla porta, lei chiede: “chi è?” e qualcuno risponde :“sono Mattia”, e lei dice: “un attimo solo”.
Pur escludendo l’intertestualità data dalla provenienza letteraria, fato vuole che La solitudine dei numeri primi sia un film dal valore altamente citazionistico: La solitudine dei numeri primi è una serie di film messi assieme e funziona anche perché c’è tutto un universo di cinema precedente. Escludendo l’esplicito richiamo della Torino del primo Argento (del quale riprende la colonna sonora, affiancata a quella scritta da Mike Patton), che pure fa da trait d’union sempre riconoscibile in questo mondo di cose precedenti, si potrebbe dire che infanzia, adolescenza e presente corrispondono a tre marche citazionali, prese dal punto di vista dei luoghi. Shining, Elephant, Bianca. Shining presta la veduta dell’Overlook Hotel sepolto dalla neve e il corridoio dell’albergo dove scorre meccanico il triciclo; Elaphant presta il corridoio della scuola, quello in cui avviene la frammentazione dei punti di vista scelta da Gus Van Sant; Bianca presta l’uscio della porta (nella scena in questione la Morante passa a trovare Moretti e lui non la lascia entrare). Dunque, tre nuclei tematici sono subito chiari: la malattia mentale di Shining, l’adolescenza problematica di Elephant, e il disadattamento socio-sentimentale di Bianca (del resto, già la telefonata tra Mattia e Alice, che precede la scena della porta, è figlia di “vengo non vengo, mi si nota di meno se vengo e sto in disparte…”). Di più: Alice da piccola scia, e pare assomigliare molto alla sciatrice degli Amori difficili di Calvino, altro indiscusso numero primo della storia della letteratura. Solo che qui le vengono aggiunti una madre che fuma da sola, lontana da tutti, e un padre che preferisce nominare ogni cosa con: “uomo di rappresentanza”, “donna di decoro”. A questo sostrato composto si aggiunge un lavoro registico dalla marca stilistica molto forte ai limiti della video arte, che funziona assai bene, e che non delude gli entusiasti di In memoria di me. I contorni dei personaggi sono spesso riempiti da non meglio definibili luci colorate fuori fuoco e in movimento. Nella direzione degli attori, si apprezzano fili di saliva appesi tra labbra parlanti “o” aperte torinesi, e una brava Isabella Rossellini. Torino è lei, ma è poco riconoscibile, e questo è certamente un punto a favore. I numeri primi si tengono compagnia sotto il nero dei titoli di coda, che mantiene i loro respiri.