Perchè sì |
Perchè no |
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di Fabrizio Funtò
Chi ha detto che la settima arte era rivolta alle masse, ha guardato il numero e non la sostanza. A volte dispiace perfino farsi una idea precisa del senso di un film: sintomo di età avanzata e di una lunga pratica di decodifica. Anni e anni spesi a cercare le trame segrete, i fili che riannodano episodi, le scene, i rimandi alla claud culturale in cui viviamo costantemente immersi, sebbene i tempi vadano verso una brutalità incombente. Tutti brutti segni, ahimé. Questa, che sembra una premessa riflessiva e forse solipsistica, è invece fondamentale per parlare di Grand Hotel Budapest, o Grand Budapest. Seduti sui rigidi scranni della linea “64” che ci riporta all’ovile ― dopo l’anteprima della pellicola ― ci spremevamo le meningi per capire quale potesse mai essere la chiave di interpretazione di un film apparentemente banale, disarmante, un pot-pourri di sequenze senza rimandi, senza misteri, tutte quasi apparentemente banali. E un cast da paura, di questi tempi risicati e astringenti, soprattutto nei budget. La mente ripassa le scene, le gag, gli eventi narrati. Proviamo a smontare e rimontare, si analizzano le battute, i dialoghi. Niente. Tutto troppo banale. Sembra una storia narrata dai bambini ai quali si regala un teatrino di cartone, con set di diversi personaggi buoni per tutti i generi ― e quelli si mettono a giocare, e inventano lì per lì qualche storia da nulla. Poi cambiano personaggi, e ne inventano altre, e via così. Una sorta di tavola imbandita in cui ti portano solo i grissini e l’acqua, ma non arriva mai il primo piatto su cui filosofeggiare. Niente. E cala la notte, agitata. Il film ritorna nella mente alternata. E ricominciamo dalla prima, lapalissiana, scena. Attraversando un camposanto pieno di lapidi, una ragazza si ferma di fronte ad un monumento con effige bronzea dell’Autore. Attaccate al basamento, alto, vi sono chiavi a mazzi, lasciate lì da tipi come noi, gente in cerca di chiavi. Chiavi di interpretazione. La ragazza ha nelle mani il libro di quell’Autore. Ed inizia la storia. Lei legge, il film racconta. Nel film, il racconto del racconto: è l’Autore stesso che ci narra come gli è stata offerta la storia del Grand Budapest, l’albergo impossibile, da parte del suo ultimo (e improbabile) proprietario, Mustafa. E parte una storia di decadenza, di antico splendore umbertino, diremmo noi italica prole. Anni di inizio del secolo scorso, bella epoque, un direttore dell’albergo impeccabile e attentissimo a ogni piccolo dettaglio, Gustave, al contempo lui stesso attrazione (letteralmente) dell’albergo per signore agée, rimesse in tiro dall’infaticabile stallone. Improbabile. La sua “bomba del sesso” ha qualcosa come 84 anni. Iniziano così storie e storielle, ma nessuna che ti coinvolga. Un famoso dipinto asportato (non proprio rubato), una gran dama uccisa (poi si scoprirà proprietaria dell’hotel e di una marea di altre proprietà), un figlio della dama che impersona il cattivo, col servitore feroce che tracima verso i caratteri dell’horror, con tanto di dita mozzate e omicidi facili, fughe rocambolesche da Alcatraz e conventi alla Nome della Rosa. Ma quasi tutto per scherzo, tutto che giace in superficie. Storie improbabili, personaggi che non assumono il loro ruolo ed anzi si rifiutano di entrarvi, trame annunciate e mai svolte, risolte in un linguaggio ampolloso e formale, per dialoghi insussistenti. Fino a che è lo stesso protagonista, il mitico Gustave, che rompendo l’ovatta in cui giace la storia urla, all’interno di un confessionale: “Ma insomma, che cazzo sta succedendo?”. Lui, il più ampolloso di tutti, è arrivato alla conclusione più drammatica e reale: non sta succedendo un bel nulla! E qui sta il difficile. Lasciatemi dire: il “mirabile”. Di più:il termine esatto è “ineffabile”. Alta filosofia, signori. Progettare un film in cui vengono messi lì i personaggi giusti, gli attori giusti, il cast giusto, le “matrici” esatte, vengono perfino date le “chiavi” di interpretazione corrette. Ma non accade nulla. Come una proposizione principale senza il verbo. La storia potrebbe offrire a ciascuno, come la concierge di un Grand Hotel, la propria chiave di interpretazione. Quei mazzi appesi al basamento dell’Autore, laggiù nel cimitero di Lutz, in un Paese inesistente nel quale, fra le vette dei suoi monti di cartapesta, accadono storie di improbabili grand hotel, perfino di angherie fasciste, oggi desuete. Ma non dovete prestare loro attenzione. Abbiamo tutta l’intelligenza possibile, qui nel Vecchio Continente. Abbiamo una struggente nostalgia di quando la Storia accadeva qui e la facevamo noi. Ma adesso siamo tutti in disarmo, come l’Hotel. Cerchiamo chiavi di interpretazione di eventi inseriti in una trama che non c’è più, e che non sa più che farsene delle chiavi. Le appende lì, nel freddo di un cimitero coperto di neve, con lapidi bianche, dove una ragazza, terminato di scorrere l’ultima pagina del romanzo, appende perfino una sua chiave. Intanto il nipotino, sanamente ignaro di tutto e armato della sua pistoletta a tappi, chiede scusa al nonno scrittore per averlo disturbato: non voleva certo distoglierlo in quella sua strana occupazione. Ma cosa stava facendo il nonno, di fronte a tutti quegli spettatori? E gli spettatori, che cosa si aspettano da lui? E poi dite che i film sono per la massa… Follie. Questo è puro Zen. |
di Alessia Brandoni
Una digressione. In musica organizzare un qualcosa significa costruirlo in modo tale che le sue parti funzionino come parti di un organismo e come parti che cooperino insieme per un fine comune (Arnold Schoenberg). Un pensiero, musicale e non solo, crea una relazione fra le cose senza il quale non esisterebbe alcuna relazione. I nessi fra le cose, nel più essenziale come nel più multiforme dei pensieri, sono la base della ricerca di un artista. Due passi indietro ora ci sembrano utili per capire meglio il passo falso che Wes Anderson sembra aver compiuto con il suo ultimo film. L’arte, si è detto, è il mezzo privilegiato per comprendere il non visibile e il non dicibile (inconscio, immaginario, percezione dell’altro, del tempo, del movimento eccetera). L’arte, si è aggiunto, è uno strumento dialettico aggettato verso la realtà, e verso chi guarda, all’interno di un movimento veggente, deterritorializzante e rivoltoso che prende il momento qualunque e lo immette nel ciclo del Tempo (atto di creazione che anticipa la relazione con ciò che ancora non c’è – “Sapete, il popolo manca” diceva Klee, “il popolo manca e, al contempo, non manca affatto. Il popolo manca, vuol dire – non è chiaro, non sarà mai chiaro – questa affinità fondamentale tra l’opera d’arte e un popolo che non esiste ancora” riprendeva Deleuze). Si citano questi padri nobili perché al cinema di Wes Anderson si era in parte creduto. Fino ad ora, infatti, sulla bilancia hanno pesato di più i meriti incarnati (anche se a posteriori, dopo l’ennesima pubblicità targata Wes Anderson, dovremmo forse dire indossati) da personaggi originali, quando non eccezionali (comunque tra i più salingeriani in circolazione), inadeguati a stare nel mondo, a vivere all’interno delle regole e delle aspettative (oltreoceano altissime) che l’altro richiede con malcelata pressione. Tanto che la via di fuga da questo mondo utilitaristico, aggressivo e volgare architettata da Anderson, ha sempre finito per prevedere la creazione di una comunità ideale -una band a part vitale e malinconica- in cui agire, con volontà, curiosità e sentimento, la cooperazione tra gli uomini e il cambiamento -esemplare in questo senso il riuscitissimo Moonrise Kingdom. L’equilibrio, insomma, tra individualismo e peso della storia, tra fuga nel passato (o nel marginale) e dialettica trasformativa avente come soggetto una comunità, tra immaginario e realtà, ebbene queste contraddizioni Anderson è sempre riuscito a “sanarle” dentro un suo linguaggio con cui, creativamente e con coraggio, si è posto come davanti a un qualcosa che ancora non c’era, un qualcosa o un qualcuno mancante. Riempiva la distanza di un vuoto, forse. Indicava una direzione a un certo cinema americano sempre più compromesso con lo spettacolo della violenza o con la retorica del marginalismo e del looserismo, probabilmente. Sicuro creava mondi “carini” ma disturba(n)ti. Al centro della società presente, tuttavia, da una parte c’è la perdita della realtà (pensiamo al problematico Her di Spike Jonze) e dall’altra la fuga da essa, attuata, quest’ultima, tramite la manipolazione oppure, come in Grand Budapest Hotel, mediante l’estetizzazione di mondi perduti -entrambi, in ogni caso, dispositivi di rimozione. Perché cos’è il film di Anderson se non una specie di onnipotenza infantile (tanto presente nel nostro tempo quanto esiliata dalla nostra coscienza) con cui (finire di) distruggere la realtà e sostituirla con costruzioni poetiche le cui proiezioni finiscono col contribuire a proiettare (e introiettare) il vuoto? Il popolo manca e il (quartierino del) nulla avanza (col rovescio “utile” di incalanare la rivolta nella distruzione nichilista servile a legittimare i violenti repulisti del potere); mentre il tempo (e la crisi e l’angoscia) viene trasformato, per conto terzi, in aneddoto vintage o in presentismo vitalista con cui rovesciare l’equivalenza conoscitiva esperienza/viaggio in rovinosa giostra autodistruttiva. |
<p>Ogni volta che esce un film di Wes Anderson alla fine me lo vado a vedere. Evidentemente questo regista è un ottimo creatore di illusioni e io appartengo al suo target. Trailer bellissimi, titoli sempre azzeccati, cast stellari e quel tocco “indiewood” che piace.</p>
<p>C.v.d. anche Grand Budapest Hotel rimane un film mediocre. Un continuo esercizio stilistico fatto di bellissimi colori pastello, inquadrature simmetriche a non finire, incredibili scenografie e una storia.. che vorrebbe farti appassionare. Un film geometrico, morbosamente studiato a tavolino in ogni inquadratura e preoccupato più nel farsi bello che nel voler raccontare qualcosa di interessante. Scintillante e ruffiano, che promette ma non mantiene.</p>