“Quanto sei bella Roma”, ha detto un giorno il Cinema, “Quanto sei bella e voglio una casa qui
Voglio inventarmi un sacco di vite in mezzo alle tue vie. Perché penso che ogni quotidiano addosso a te sia molto più efficace, a fini estetici e commerciali, di tanti altri quotidiani intrisi di altri luoghi”. L’ha detto ancora giovane, il Cinema, e non se n’è pentito mai. Anzi, ad ogni occasione autobiografica ha rafforzato la sua saggia convinzione: “Qui ho speso e voglio continuare a spendere molto della mia vita”. E come dargli torto? Come non innamorarsi di quel rapporto tra cinema e città eterna fatto di commedia, tragedia e dramedy? Come non incantarsi su vedute e portoni, vicoli e viali? Come non amare gli agosti o i sampietrini, i bar e le scalette, le fontane e i ministeri, e poi le ville e le rovine, i mercati, i ponti ed i deserti umani, le ammucchiate da politica, da vacanza o da dopopartita? Come distrarsi di fronte ai tanti omaggi, sempre interessati, che la macchina dei sogni ha sempre dedicato al gran capolavoro di stratificazione culturale ed artistica, spontanea, santa e selvaggia? Impossibile staccarsi dai grandiosi bianco e nero pittorici, da tutti i colori che il cinema ha saputo bloccare di lei. E così lo spettatore di ogni mondo si è ritagliato i tempi e i modi per le sue “vacanze romane”, attraverso uno schermo che si è fatto solo cartolina o specchio di movimenti esistenziali: certificati di passaggio storico affissi lungo i sentieri dell’inequivocabile e sacra pietra romana. Ecco Trastevere, Castel Sant’angelo, il Colosseo, Testaccio e la Stazione Termini, fermare i loro anni col cinema. Mettersi in posa, bellissimi, per far ricordare com’erano loro e com’era Roma allora. Trafugati legalmente, con cadenza fissa, da pensatori e mestieranti, avventurieri ed artigiani, figli di papà ed artisti incompresi, romanissimi o stranieri. Mitico, sensazionale, poetico, il viaggio in vespone arroventato del Moretti “splendido quarantenne” nei quartieri assolati della città “nuova”. Dentro Roma, titolo tra l’altro di un bel documentario di Ugo Gregoretti sullo stato della città intorno al ’78, sono passate migliaia di vite paradigmatiche, storie universalmente esemplari, capofila di tante altre invisibili, più piccole.
Finché un giorno di fine secolo, durante una casuale passeggiata fuori porta, il cinema italiano ha scoperto “Prati”: un quartiere a ridosso del centro, una zona non bellissima ma particolare, il sobrio habitat di certa borghesia romana. Il rione della Rai e del tribunale, che confina con lo stadio Olimpico da una parte, e con la maestosità di San Pietro dall’altra. Un insieme tagliente di palazzi alti, un rettangolo freddino, frazionato da due rette perpendicolari con arterie ondulate e qualche rotonda piazzetta alberata. Lo ha fatto quasi per caso, per mano di un giovane regista dagli occhi chiari e il viso non armonico. Un timido non bellissimo, ragazzo bravo con la macchina da presa e sfortunato, dice lui, con le donne. Regista col botto al terzo tentativo, dopo un esordio traballante lanciato subito al festival di Torino, e un capitolo secondo più efficace, subito promosso a Venezia. Figlio di impiegati Rai, magro, un poco balbuziente, emotivo, dice chi lo conosce e chi ci ha lavorato accanto. Criticato perché osannato, osannato perché accattivante, accattivante perché furbo. Di sicuro ha fatto la storia del cinema italiano recente e, forse, stando ai primi fortunati approcci, di quella futura del cinema americano. Muccino Gabriele, Roma, Italia, 20 Maggio 1967. Lettere senza laurea, allievo di Leo Benvenuti, volontario per Avati e Risi (Marco). Diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Quattro saluti, quattro salti e tre cortometraggi in Rai: documentarista quanto basta, fino al 1998. Poi Ecco fatto, prime isterie e primi nervosismi di un’epoca e di un mondo, discesa, dilagante e incontrastabile, di tradimenti e gelosie, di private finestre per bene squarciate da un’insofferenza patologica. Ma anche garbo narrativo e leggero divertimento, freschezza e attualità. Tre film in quattro anni, tre appelli e prima sentenza: crescere e maturare diventa insopportabile, quasi impossibile. Buona l’accoglienza della critica, esponenziale la risposta del pubblico: “Prati” si spalanca e iniziano a sfrecciare, fricchettone e pacifiste, le vespette dei figli di questa strana comune. Si allargano le porte a vetro degli ascensori e negli androni si scatenano le scenate. Si corre verso un’altra vita, si sogna la fuga. Il lavoro non rappresenta un obiettivo, tutt’altro, è la fine della gioia, lo scontro con le bassezze della vita. Tutto il bello è laddove è impossibile afferrarlo. Né la coppia né la solitudine rappresentano una via d’uscita. Non esistono ideali collettivi; di politica neanche a parlarne. È l’angoscia, generazionale e pangenerazionale, raccontata con le parole, i colori, i suoni e i movimenti di macchina che tutto il popolo può digerire. Al terzo ciak è fatta davvero. L’ultimo bacio guadagna 15 milioni di euro. Tutti lo vedono, tutti ne parlano, la giovane Italia si divide tra il rifiuto e il consenso per un film che può apparire falso o feroce. L’ultimo bacio arriva nei cinema a tante sale e i suoi innamoramenti complicati liberano gli ormoni e le emozioni di tanta plebe contemporanea. Il cinema “per tutti” raccoglie l’esempio e lo trasforma in direzione. Impareremo a scandagliare Prati e il suo lungotevere, arriveremo in breve a Borgo Pio e impasteremo col cinema tutta la letteratura, recentissima e generazionale, di Ponte Milvio.
Già, Ponte Milvio, altro quartiere di dominio borghese, altra zona attaccata al cuore di Roma. Suo il più bello dei passaggi sul fiume, leggermente a Nord del centro, attaccato al Flaminio e alle falde dei Parioli. Si affaccia sui colli della Farnesina, della Camilluccia e del Fleming, verdissimi e zeppi di pini, di garages pieni d’auto e di cancelli automatici. Da lì si parte per le vie di Vigna Stelluti e Vigna Clara, arredate con gusto e bei negozi, bei palazzi e piante sui balconi. Alla sinistra del ponte, poetico e pedonale, ora appesantito dai lucchetti generazionali dei ragazzi, a portata di boato, elefantiaco e monumentale, c’è il gigante che dorme: lo stadio Olimpico, sdraiato sopra il foro Italico e ferito gravemente dalla copertura di Italia ’90. La curva Sud si affaccia su Prati e la sua pista ciclabile avvolge i tanti studi avvocatizi del quartiere, offrendo la corsa del sabato mattina a medici, dentisti e giornalisti atletici. La Nord, al contrario, impatta improvvisamente addosso alla tangenziale grigia ed intasata, che segna la fine di un mondo e l’inizio di un altro: quello delle periferie che costituiscono tutt’altro modo di vivere Roma. Nella fetta di territorio che abbraccia questi agiati e analoghi quartieri vive “la meglio cittadinanza” romana: gente “per bene”, che bene veste, bene viaggia e bene fa sport ed affari. Attorno a Ponte Milvio si agitano le roboanti faccende amorose e amicali messe in prosa da Moccia e poi in elementari immagini da due registi-nessuno: Stefano Lucini e Luis Prieto. Vicend
e banali, dozzinalmente sceneggiate, ma che producono un altro sorprendente fiume di danaro. Attorno a Ponte Milvio vive lo Step che ha fatto la fortuna del suo scrittore romano e dell’ancora semisconosciuto Riccardo Scamarcio. La sua moto potente dribbla le ferraglie ferme al semaforo e fa del suo padrone il protagonista epico di un western metropolitano d’alto bordo. Per Step, bello, forte, sicuro di sé, giusto e munito di robusta paghetta, niente scuola, meglio la strada e meglio ancora gli appartamenti confortevoli nei quali esplodere la rabbia e gli istinti legittimi, molto spesso di difesa.
Il libro Io e te, tre metri sopra il cielo fa bingo, e il film omonimo che lo segue lo fa doppio, triplo, quadruplo. Chi ha investito schiatta dal ridere e propone il sequel letterario e cinematografico: Ho voglia di te. E ancora di moto, amori, ponti ed autografi, manie, capelli ed urla, si parla e parleranno i giornali. È strike! Ancora una volta. Ancora una volta ogni latitudine della metropoli si accalca per andare a vedere quel che succede dentro le case dei ricchi che piangono. Ponte Milvio d’estate, la sera, è pieno di giovanissima pelle abbronzata. La luce arancio dei lampioni che avvolgono il suo antico rettilineo di pietra, imbosca e contiene una generazione che sta per partire, andare, progettare, diventare. Seduta sul bordo in travertino, col Tevere nero che quieto ed eterno scorre sotto silenzioso, l’inafferrabile età gioca a dettagliare quel viaggio che si promette straordinario. Sarà Grecia, Marocco o Turchia. Sul ponte aleggia un profumato odore d’hashish; bottiglie di Heineken scivolano vuote; i pischelli chiedono cartine per far capire che si fanno le canne, che cioè partecipano, oltrepassano, ricercano, ci stanno. Puoi guardarli e coglierne il momento, riderci un po’ su, giudicarli e poi capirli. Ricordare e riassaporare il fascino indiscreto che emana quell’età così fragorosa, fragile ed inafferrabile. Per loro è appena passata, o sta per venire, la maturità borghese: quella convenzione sociale che sancisce l’essere grandi, pronti, forti. Quel nervo sensibile che il cinema ha ben imparato a pizzicare.
Qualche anno fa Giovanni Veronesi ci raccontò uno di questi moderni viaggi al mare e ne uscirono ritratti credibili di una certa romanità: quella che annusa Catullo ed Aristotele, che crede nell’amore e nell’amicizia, che non mette i soldi al primo posto perché già ci stanno: ce li ha messi qualcuno, da tempo, per loro. Una romanità alla ricerca disperata di una felicità enorme che ancora non c’è. Una generazione figlia di un’altra sconfitta, arrabbiata e violenta verso i genitori che spesso non riescono a smettere di sbagliare. Il film di Veronesi si intitola Che ne sarà di noi e i suoi personaggi ci erano già stati presentati dal regista che di questi quartieri, di queste estrazioni, di questi modi di pensare ha fatto il suo cinema e la sua fortuna: Gabriele Muccino, appunto. Coi suoi palazzi a tanti piani, l’ascensore al centro e il cuore di Roma a due passi: sempre ospitale, sempre complice, amico e mai alienante. In questi film le famiglie osservano i figli, con preoccupazione e razionalità, dal buco della serratura. Sono nuclei sfilettati, un po’ deboli e un po’ in colpa, in crisi e in analisi. I figli sbraitano, corrono e manifestano, urlando l’angoscia che anticipa il successo momentaneo del loro periodo di formazione. Che quasi sempre culmina in una bella e sorprendente, irripetibile ed incantevole, scopata d’amore. Con quest’atto, descritto con bella prosa dagli autori borghesi del cinema italiano contemporaneo, si chiude un momento e si conquistano gli euro di una generazione. Non solo, e neanche soprattutto, quelli della fetta di generazione che si identifica socialmente nelle porzioni di spazio e di cultura descritte nei film. No, sono soprattutto gli adolescenti meno fortunati a sbirciare dal buco della serratura ragazzi più fortunati e per ciò più abili di loro. Attraverso i non compagni di scuola ritratti con un linguaggio semplice, immediato, a volte persino elementare, i figli della periferia provano a vivere ciò che non hanno, sfruttando la possibilità concessa da una medesima età e dalla conseguente simile reazione ai primi inganni della vita. L’amore a vent’anni, nel bel mezzo di Roma col sole, col motorino e il portafoglio del babbo condannato a pagare in silenzio e ad ammettere i propri errori. I figli, così puri e intelligenti, credono al come te nessuno mai ma qualche anno più tardi si convertiranno, dolorosamente, al come te mille altre! Eppure è il loro mondo che interessa al cinema italiano che più incassa e più guadagna.
Prendiamo in esame alcuni dei film che stanno risollevando le sue sorti. In Notte prima degli esami, di ieri o di oggi che sia, i protagonisti sono figli di una Roma, se non bene, almeno benino: l’unica che appartiene ad una sorta di proletariato metropolitano contemporaneo, è una ragazza che viene bocciata al primo film e se ne va, definitivamente, a raccogliere un pezzo di muro a Berlino. Gli altri, più belli e vincenti, restano e corrono a colle Oppio, vanno alle feste nelle ville e si affacciano dal balcone vedendo cupole, cupole, cupole e cupole ancora. I genitori giocano a calcetto nel circolo Canottieri Lazio e i figli li vanno a raccattare dopo aver percorso, correndo e dannandosi, le solite piazze e le solite vie. In Come te nessuno mai, manifesto (non accettato) degli adolescenti del Liceo Mamiani, la periferia compie una breve irruzione sottoforma di goffa squadriglia di skinheads ma Muccino li tratta malissimo, espellendoli dalla pellicola immediatamente ed abbandonandoli ad altre, chissà quali, chissà quando, migliori riflessioni su di loro. Eppure ce n’è tanta di questa romanità senza Catullo e senza denaro, che è poi quella che occupa le curve e che fornisce manovalanza a nuovi e politici movimenti. Ma al cinema dei borghesi che guardano alla massa questo tema e questo cinema non interessano.
E riprendiamo l’amatissimo Step di Moccia: in periferia ci va solo per correre in moto, ma quando torna da New York il primo posto che visita è proprio il baretto di Ponte Milvio. Step, quasi per caso, si ritrova a lavorare in televisione, campo professionale esclusivo della borghesia romana, di natura o di fatto. Ma di lavoro, Step, non parla mai. Si addentra, affamato d’amore, in una classe sociale ancora più alta della sua e sta alla sua Baby come il Claudio Amendola di Amarsi un po’ stava alla bella principessina vestita da ragazza della porta accanto. Solo che Amendola era davvero un ragazzo di periferia e per comprarsi la moto lavorava in officina. Step se ne è stato due anni a New York e, a sentir lui, non ha fatto altro che andare a letto presto. E c’è da credergli perché è identico a com’era quando partì per digerire la morte sentimentale. Non c’è niente da fare, è affascinante e cinegenico l’ambiente borghese romano. Persino Paolo Virzì, dopo aver cantato l’inno del proletariato livornese si è messo ad osservare gli usi e i costumi della Roma radical dei professionisti e dei licei: la sua Caterina va in una città dominata da monumenti e da colori pastello che danno sull’arancio, sul rosso, sul rosa e sul giallo. Si mette in mezzo a “zecche&rdqu
o; coi soldi e a pariolini con ancora più soldi. Rimane interdetta ma al contempo attratta da quelle dinamiche sociali. Perché è legittimo per i poveri aspirare ad una condizione migliore. C’è uno dei film più chiari di Bernardo Bertolucci che lo testimonia. È Prima della Rivoluzione, quando Fabrizio, alla festa dell’Unità, viene ammonito da Cesare per non averlo ancora compreso. Per ciò, per le migliaia di adolescenti di periferia, quello di Step è un modello perfetto, perché lontano dalla realtà e per questo superconduttore di sogni ed emozioni. Funziona la formula dell’anche i ricchi piangono, che sono pure belli e intelligenti.
Il grande mito paradigmatico di questa generazione è Silvio Muccino. I suoi occhioni azzurri da bravo ragazzo rafforzano i suoi pensieri-contro e danno ossigeno alla sua rincorsa. Si veste come la periferia, ma non sarà mai come la periferia. Perché la periferia, quel coraggio, quella determinazione timida, quel sapere che in fondo può farcela, non ce l’ha. Muccino si muove nel centro storico anche quando vuol far finta che sia un quartiere popolare, vedi Il mio miglior nemico, ultimo sopravvalutato lavoro di Carlo Verdone. Fa le poste a Jasmine Trinca (in Manuale d’amore 1) in un angolo di Roma che sembra un giardino incantato. Con lei si piglia un delizioso appartamentino che di affitto verrà a costare 1000 euro al mese, almeno. È questa la Roma del cinema, ed ultima riprova ne è il film della compagna Archibugi: Lezioni di Volo. Che è la storia, televisivamente girata, di due adolescenti straricchi di via del Babuino, anche loro in fondo bravi figli, con la pelle pulita e gli occhi lucidi che quando capiscono chi sono, gli occhi si fanno più grandi e rischi di fare il tifo per loro. Questo film segna il passaggio di questo tempo cinematografico soprattutto se paragonato ad un film precedente della stessa regista romana: qualche anno fa Francesca Archibugi aveva descritto con esattezza scoraggiata certi luoghi dell’esistenza della gente comune, il supermercato e i corridoi della Asl, l’oscurità domestica nei pomeriggi invernali e le aule della scuola. Si trattava de L’albero delle Pere, e non era affatto male. Oggi retrocede in quella città vecchia che rallegra lo spettatore e lo preserva dall’angoscia di certe vedute fredde, asettiche, abbandonate e sporche.
Una volta c’erano i poveri ma belli perché l’Italia si ritrovava in loro. Oggi i modelli sono questi e la periferia non è di moda. Perché parlare di periferia significa denunciare e sono pochi quelli che hanno voglia di farlo, anche perché non è con la denuncia, né col realismo, che si fanno spettatori e soldi. L’unico bel film romano degli ultimi anni che parla di periferia è il davvero convincente Saimir di Francesco Munzi. È la storia di un ragazzo albanese che vive sul litorale laziale. Non è un film che ha fatto incassi, e non sarà un cult di questa generazione di adolescenti. Non c’è movimento ormonale in Saimir ma bocconi amari che i giovani non hanno nessuna voglia di ingerire. Eppure sarebbe bello per una città come Roma, ricchissima di periferia, dare voce e immagine ad una grandissima fetta di generazione che vive in agglomerati popolari, che va in centro solo raramente, che passa i pomeriggi in bisca o sul muretto ad urlare, impennare e a dire bestemmie e parolacce. Una fetta con tanto bisogno e tanta incapacità di amare. Tanto bisogno di essere guidata e consigliata. Sarebbe bello che il cinema romano si avvicinasse a quegli istituti tecnici pieni di disastri didattici e sociali che fanno la maggior parte della cultura cittadina. Andrebbe bene anche un film come La scuola di Daniele Lucchetti, tanto per iniziare. E invece no! Ancora amori di centro, Tevere in cui piangere, canzoni pop a completare l’affresco e viaggi della sbronza e della formazione. Prendiamo altri due esempi della scorsa stagione: Ma che ci faccio qui e Last minute Marocco, due racconti di viaggio del dopo maturità. Tutto torna anche stavolta: linguaggio vicino alla periferia ma nello stesso tempo diversissimo, corretta ribellione e tanta embrionale saggezza. Che il futuro si prospetti roseo si intuisce dalla reazione e dal riscatto deciso che succede alla prima ferita inaspettata. Finisce tutto ad happy end sudato, meritato, faticoso quanto serve.
A Napoli non è così, a Napoli la periferia è il centro del cinema. Perché Napoli è una città diversa da Roma e perché i registi che la stanno fermando in cinema hanno deciso di denunciare, forse perché costretti. È un fatto, però, e non irrilevante, che Tornando a casa, Vento di terra, La guerra di Mario o Pater familias, li abbia visti solo il cinefilo ad oltranza, mentre Io e te tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Notte prima degli esami, Manuale d’amore e tutto il muccinismo di fine-inizio secolo, li conoscano un po’ tutti, anche quelli che vanno al cinema per sbaglio, una, due, tre volte l’anno. Il paradosso curioso è che il cinema che parla di proletariato, anche se questo termine risulta un po’ vetusto e non del tutto esatto, è accessibile solo ad un pubblico borghese, mentre il cinema che parla del mondo borghese è perfetto per le masse. Perché i registi che affrontano le tematiche dei primi, dei ragazzi sfortunati, risultano essere i cosiddetti autori e come tali adottano un linguaggio estremamente ribelle a quello imposto dai codici televisivi. I secondi, invece, i registi borghesi che raccontano il proprio ombelico, il proprio microcosmo, sanno benissimo esportarlo grazie al veicolo linguistico fornito dalla tv, sia in fatto di stile che di temi. Per tanto solo un pubblico colto, abituato al cinema e alla lettura, può avvicinarsi con piacere ai film dei registi di cui sopra, ai quali va aggiunto, ad altissima voce, il nome di Daniele Gaglianone. Suo il Nemmeno il destino che racconta ancora disagio e marginalità. E il pubblico colto, allenato, poco assuefatto al piccolo schermo, è più facile trovarlo nei paraggi del centro, nelle zone in cui il tenore di vita è più alto e l’accesso alle cose belle della vita più a portata di mano, piuttosto che nelle zone grigie e poco alberate dei grandi agglomerati. Là regnano le multisale con scelta obbligata, sempre zeppi nei fine settimana ed abitati, al di là dei film, da comitive urlanti in arrapamento e confusione. Per loro sono sempre pronti ed apprezzati i modelli forniti da un mondo che dista da loro solo qualche irraggiungibile chilometro.
Chiudiamo con il secondo miglior esordio italiano del decennio (il primo era quello di Gaglianone, I nostri anni): si tratta di Anche Libero va bene, dell’intelligente, sensibile e maturo Kim Rossi Stuart. Il film ha il coraggio di adoperare una lingua asciutta, sintetica e che produce sicurezza nelle emozioni dello spettatore. Eppure, piccolo segno dei tempi, il neo-regista cinematografico non trova la forza di ambientare la sua tenera e caustica vicenda, al di fuori delle immaginarie mura pratine. I palazzi, i tetti e le strade sono quelli. Con tutta tranquillità, in questo caso, chiudiamo un occhio e con l’altro ci godiamo un film a cui vog
liamo bene.
Veramente un bell’articolo che fa molto riflettere!