In occasione della presentazione del film alla rassegna BIMBI BELLI curata da Nanni Moretti – ripubblichiamo la recensione del film scritta per l’uscita nelle sale.
L’opera seconda –bellissima- di Pietro Marcello, giovane regista di Caserta, dopo aver vinto il Festival di Torino e partecipato alla sezione Forum di Berlino, esce nelle sale italiane trovando un interessante – e propagandante – riscontro di pubblico. La produzione è quella accurata e coraggiosa della Indigo Film e de l’Avventurosa Film (nome immaginifico che rimanda a viaggi e scoperte e che potrebbe benissimo fare da sottotitolo al film di Marcello), mentre la BIM si è occupata con attenzione della distribuzione nei cinema. Altri soggetti interessanti che hanno partecipato all’operazione sono la Fondazione San Marcellino Onlus, la Provincia di Genova e la Mediateca Regionale Ligure. Come dire il terreno sociale (emarginato), il luogo e il tempo in cui circoscrivere il movimento (comunque inquieto e irregolare) dell’autore, sarto di prim’ordine nell’assemblare storie, territori e persone e nel raffigurarne le connessioni e i possibili legami.
Marcello ha percorso i vicoli, le banchine portuali, i decantati quartieri aggrovigliati di Genova per quasi un anno. Si è dato il tempo per osservare e partecipare a quello che andava formandosi come il nucleo possibile del proprio film. E alla fine, tra le tante storie di spostati che gli si sono parate davanti, ha scelto quella struggente ed esemplare di Enzo e Mary, lui ex-galeotto del sud con la faccia dura e noir alla Eddie Constantine (penso ad Alphaville di Godard), lei transessuale con lo sguardo lucido e la dizione trattenuta (da quale luogo proviene?) che rivelano pudore e dignità. Si incontrano in carcere e si innamorano. Lei aspetterà lui per ben 10 anni, il tempo imposto ad Enzo per scontare la pena. Ed è proprio in questo tempo così lungo che l’irascibile detenuto riuscirà a credere per la prima volta in un altro essere umano: la rabbia e la disperazione con cui fino ad allora aveva distrutto la propria vita si sciolgieranno in gioco e amore. In parallelo, attraverso la forza, la protezione e il sentimento di Enzo, Mary troverà il coraggio di abbandonare la tossicodipendenza. Che a ben guardare suggerisce il passaggio da una dipendenza distruttiva ad un’altra che quantomeno permette sopravvivenza e tenerezza. I ruoli tra i due non sono così definiti come sembrerebbe (ovvero il macho e il travestito). Espressiva è la frase “scappata” ad Enzo nella meravigliosa (non)intervista finale: “siamo due dominatrici”. E Mary, dolce ma ferma, in un rimando complice risponde: “nessuno dei due domina l’altro”.
La storia di questi due outsider viene ripercorsa da Marcello con sensibilità, intuito e tecnica (anche nel senso baziniano per cui ogni tecnica rimanda a una metafisica) davvero sorprendenti. Digitale trattato in una fase successiva a quella delle riprese, spezzoni documentaristici provenienti da archivi pubblici (l’imbarco degli emigranti italiani sui transatlantici diretti verso l’America del Sud), home movies girati in super-8 da genovesi (la moscacieca delle donne sulla spiaggia che, in un parallelo affettivo e culturale con i tuffi dei ragazzi al principio della storia, chiude il film in modo circolare). Materiale sparso che scombina i punti di riferimento e i sensi dello spettatore, trasportato dall’estetica emotiva dell’autore (centrale l’uso del montaggio) in un luogo e in un tempo altro. L’inizio è un piano sequenza che scruta, immobile, il mare genovese, dove una voce fuori campo racconta di storie lontane e di navigazioni senza una meta sicura. Nubi scure e compatte tracciano una linea d’ombra sulla superficie densa del mare che riporta ai viaggi e alle scelte conradiane. Le grotte, una volta rifugi di antichi miti oggi ferite di attuali fantasmi (i migranti in attesa di rubare un imbarco al destino), e i carrugi, neri e impudici, brulicanti di irregolari, spingono sulla videocamera di Marcello in un moto urgente di auto-rappresentazione. Diventare visibili. Tema presente anche nel film precedente di Marcello, Il passaggio della linea, nato come inchiesta sociale sui viaggiatori dei treni economici della notte e diventato piccolo poema notturno, una specie di Spoon River (Express), in cui alla dignità delle singole storie rappresentate Marcello offre anche il riscatto di un posto-immagine altro: il treno porta altrove, nel futuro. Chi scappa da casa prende un treno. Possiamo dire che i protagonisti rappresentati da Marcello possiedono quella dignità umana incancellabile che riesce a prescindere dalle circostanze (la bocca del lupo in agguato). Al cinema questa trasfigurazione della realtà -a volte un vero e proprio capovolgimento- è permessa. Soprattutto nel cinema di poesia.
Le tracce di memoria di non pronta metabolizzazione appartenenti a soggetti sociali non facilmente integrabili, segnano in tal modo anche la grana del nuovo film di Marcello. Il cui sguardo non si piega mai né al dispotismo della realtà né all’invadenza dell’informazione (che provoca l’impasse del desiderio, come nei documentari di Moore). Marcello ha sempre uno sguardo personale, desiderante (ci informa, cioè, di qualcosa che ha a che fare anche con se stesso), uno sguardo con cui diviene artefice di una trasformazione della realtà. Di una metafisica della realtà, anche. L’aspetto cronachistico in Marcello è sempre uno strumento su un’apertura verso qualcosa di più universale. E’ il tempo che scorre e la memoria che si inganna e si ricrea nel labirinto dei luoghi e dei viaggi reali o immaginati, che percepiamo nelle immagini di Marcello, qui sottratte alla prevedibilità di una narrazione lineare. In questa prospettiva, ciascuna immagine de La bocca del lupo potrebbe essere l’inizio di un nuovo film, ciascun fotogramma assume un significato più vasto. C’è un’ambiguità feconda nel lavoro dell’autore (che non a caso ha scelto una storia sfuggente ai codici tutti “buoni consigli” della normalità), le situazioni che egli compone hanno una preminenza ottico-sonora funzionale a scoprire legami inusuali tra quanto rappresentato e quanto percepito. I sensi liberati entrano in rapporto diretto con il tempo e con il pensiero (per dirla con Deleuze).
Sciascia, applicando un’invenzione di Borges, sostiene che in una vecchia fotografia (madre dell’immagine cinematografica ed in stretto contatto, quantomeno per vicinanza anagrafica, con le immagini stipate negli archivi e i vecchi filmini di famiglia), ovvero “in un sol punto”, si concentrano il presente (di quando la fotografia è stata fatta), il passato e il futuro (il futuro che è diventato passato e il tutto che la morte del soggetto raffigurato ha concluso), in tal modo provocando un “aleph”, ovvero una contrazione (espansione) vertiginosa dello spazio e del tempo (“Il ritratto fotografico come entelechia” in Fatti diversi di storia letteraria e civile).
A volte può accadere di percepire
fenomeni di questo tipo anche al cinema.