Sorride poco Guido Lombardi, parla serio serio della sua creatura, Là-bas, finalmente in sala a sei mesi dal successo di Venezia, per poi prorompere qua e là in improvvise risate sonore, fanciullesche, che «sdrammatizzano» il suo ruolo di regista e ne scacciano forse gli imbarazzi. Disponibile e schietto, la parlata macchiata dalle frequenti sporcature dialettali che accorciano le distanze e affratellano nel racconto, Lombardi si confida sulle difficoltà dell’esordire, si dilunga con piacere sugli aspetti più tecnici del fare cinema e sulle sue passioni cinefile, ma conferma prima di tutto l’impronta di autore impegnato, con un punto di vista forte sull’esistente e l’urgenza di dargli voce.
L’attenzione attorno a Là-bas, sia nei giorni di Venezia, sia ora che il film è in sala, si concentra molto, forse esclusivamente, sui contenuti sociali che il film tocca: la criminalità, la questione dell’integrazione e così via. Tu, come autore, ti senti per questo messo un po’ in secondo piano? Senti questa cosa come limitante?
No, per niente. Se il contenuto «passa» vuol dire che la forma è adeguata. Quello che mi premeva rispetto alla messa in scena, e quindi alla mia opera di regista, era che Là-bas non si confondesse con l’enorme quantità di materiale video che esiste su questi argomenti: lavori spesso legati alla contingenza, all’evento mediatico, in cui manca un approfondimento dialettico, diciamo. Per questo volevo che il film fosse quanto più «cinematografico» possibile, compatibilmente con i mezzi poveri che avevamo a disposizione. Da qui, per esempio, la scelta di utilizzare per le riprese una fotocamera 5D, che ha una pasta, appunto, più cinematografica rispetto ad altre camere digitali.
In ogni caso mi sembra che sulla questione dell’integrazione il tuo punto di vista sia decisamente pessimista. Tu non ti limiti a scattare una fotografia dell’esistente dai toni – inevitabilmente – cupi; anche in prospettiva, se penso al finale del film, non offri molte speranze…
Il finale tutto sommato è speranzoso nel suo pessimismo. Realisticamente, credo che soltanto gli immigrati di seconda generazione potranno in futuro vivere una realtà differente, sempre che passi la proposta di legge sullo ius soli. Attualmente chi nasce in Italia, ma da genitori non italiani non ha diritto alla cittadinanza: un paradosso incredibile per uno Stato che voglia dirsi civile e democratico.
Quindi il problema, per te, è principalmente legislativo?
Io credo che sulla questione dell’immigrazione ci siano delle gravi storture nel nostro sistema giuridico, create in questi anni tanto dai governi di destra quanto da quelli di sinistra. Di conseguenza l’integrazione è molto lontana, perché gli italiani non sono preparati a incontrare qualcosa di diverso dagli italiani, non sono aperti all’incontro con l’Altro. Eppure dovremmo essere poeti e navigatori… In campagna elettorale, poi, puntualmente si crea un clima di terrore nei confronti degli immigrati, aizzato dalle forze politiche: il rumeno che ti stupra appena giri l’angolo, lo zingaro che ti viene a derubare nella villetta. Questa strumentalizzazione impedisce un vero contatto con gli stranieri e ha fatto regredire notevolmente l’Italia rispetto a vent’anni fa.
Per rendere al meglio la non-integrazione, nel film hai scelto di eliminare completamente o quasi la pelle bianca…
Sì, d’altra parte è stato il mio primo impatto con Castel Volturno: ma qua dove sono i bianchi?! Mi sembrava di stare in un pezzetto d’Africa.
C’è uno svuotamento in generale di tutto l’ambiente, dello scenario: come se i tuoi personaggi si muovessero nel vuoto.
Soprattutto d’inverno, quando noi abbiamo girato, Castel Volturno è una città-fantasma. Le villette abbandonate, le auto che sul lungomare passano una ogni dieci minuti. Di giorno è spopolata anche di africani, che vanno fuori a lavorare. Questo è il paesaggio davanti al quale ci siamo trovati durante le riprese. A volte pareva che fossimo noi, la troupe, a ravvivare l’ambiente! A quel punto mi sarebbe sembrato fuorviante introdurre delle comparse che passeggiassero in strada.
E’ interessante che quello che tu descrivi come il massimo di realismo coincida sullo schermo quasi con una sorta di astrazione…
Sì, credo che il film restituisca una certa sensazione di «sospensione», forse persino oltre le mie intenzioni.
Là-bas presenta molte variazioni di ritmo e di stile. In particolare, dopo una prima parte in cui prevale un occhio quasi documentaristico, contemplativo, in seguito il film si riscalda e anche il tuo sguardo si fa più partecipe, la camera si sente… Puoi dirci qualcosa di più sulle tue scelte di regia?
Io parto sempre dall’idea che il modo in cui si gira una scena debba essere legato a ciò che quella scena racconta. La sequenza della sartoria, ad esempio, quella in cui zio Moses si prova il vestito mentre Yussouf disegna, costituisce un momento di quiete, e allora la scelta migliore per descriverla mi è sembrata un pianosequenza lento, interrotto poi da uno stacco quando inizia il dialogo tra i due.
Il tuo uso del piano sequenza è in effetti molto caratterizzante. Penso ad esempio alla scena notturna in cui Yussouf e Suad fanno il gioco del silenzio.
Quella lunga ripresa di loro due immobili, priva di rumori d’ambiente, in effetti è spiazzante. Ma proprio quando stai per chiederti se il regista non sia impazzito, riaffiora improvvisa la verità del racconto, con la scoperta del gioco che i due personaggi stanno facendo. Questo uscire fuori dal film per un attimo e realizzare che c’è un movimento di macchina, subito prima di essere immersi nuovamente dentro, mi sembrava che potesse aumentare il coinvolgimento emotivo. Questo è il mio sforzo, in ogni scena e inquadratura: trasformare un’informazione intellettuale in qualcosa che ti prenda alla pancia, a livello emozionale.
Invece la scena dell’assalto alla casa delle candele sembra quasi teatrale, o comunque non totalmente realistica…
Lì volevo in qualche modo raffreddare la violenza. Ho cercato di creare un momento di sospensione, sia attraverso i movimenti della camera, sia con la voce fuoricampo di Moses, in modo che quella violenza non venisse solo mostrata ma anche in qualche modo capita. Anche in quel caso un momento quasi onirico viene poi interrotto da un ritorno brusco alla realtà: un inseguimento girato con la macchina a spalla, i rumori che si alzano, e si è precipitati di nuovo dentro la realtà.
E la strage?
La scena della strage è inserita, nel film, in montaggio alternato con altre due situazioni, ma originariamente l’ho girata con un unico pianosequenza perché volevo che lo spettatore fosse pienamente dentro la situazione. Il piano sequenza ha la capacità di restituire una percezione dello spazio più realistica: la camera individua lo spazio attraverso il movimento, che è un movimento continuo: come se l’occhio scoprisse la realtà nel suo farsi.
A proposito della strage, una prima versione della sceneggiatura di Là-bas risale al 2006, due anni prima dei fatti di Castel Volturno. Perché in seguito hai deciso di inserire nel film quell’evento?
La dinamica e le «motivazioni» della strage mi hanno colpito molto: l’idea di sparare contro delle persone senza minimamente tenere conto della loro identità, ma semplicemente perché africani, perché neri, con l’obiettivo di far pervenire un messaggio a dei trafficanti africani, è una cosa atroce, un punto di non ritorno. Ma in fondo mi è sembrata una versione estrema e paradossale di un atteggiamento che tutti abbiamo nei confronti degli immigrati, che è quello di individuarli semplicemente come massa, senza riconoscere all’interno di quella massa delle individualità. È il segno di un mancato progresso, di una barbarie che sta ritornando.
A parte Esther Elisha, che interpreta Suad, il cast è composto interamente da non-attori. Come è stato lavorare con loro? Quali sono state le difficoltà?
Non è stato semplice. Se non sei un attore professionista, dover imparare un testo e recitarlo sotto gli occhi di venti persone che aspettano solo te rischia di rendere la tua interpretazione artefatta, finta. Perciò li ho stancati! [ride n.d.r.] Ogni scena l’abbiamo fatta molte volte. In parte per motivi prettamente tecnici: la 5D ha una messa a fuoco estremamente limitata, perde il fuoco con grande facilità, il che significa che molte riprese devi buttarle. E così, arrivati al quindicesimo ciak, i ragazzi erano talmente stanchi che l’emozione era un problema superato. E non dovevano più nemmeno sforzarsi per ricordare le battute, perché le avevano ripetute talmente tante volte che ormai gli appartenevano. Così dalla stanchezza è venuta fuori la naturalezza.
Come hai scelto gli interpreti?
Ho fatto molti provini, che si sono rivelati importantissimi anche rispetto alla sceneggiatura perché facendo domande sulla loro vita ho imparato dai ragazzi molte cose. Per esempio ho scoperto che tanti africani vengono in Italia per raggiungere un parente, il quale magari ha raccontato loro un sacco di bugie su quello che fa qui e come vive. Proprio come accade nel film con Yussouf e zio Moses.
Nella preparazione del film, c’è stato qualche riferimento cinematografico che hai tenuto presente?
Per la costruzione della vicenda criminale sicuramente Il profeta, che per me ha rappresentato quasi un riferimento a contrariis. Il film di Audiard è un romanzo di formazione (o piuttosto di de-formazione!) durante il quale ti ritrovi a parteggiare, paradossalmente, per uno che diventa un criminale, il più bravo di tutti. Si è con lui fino alla fine. Io volevo che lo spettatore del mio film fosse con Yussouf anche se la sua ascesa criminale non si conclude positivamente. Volevo che lo spettatore facesse i conti con la sua inadeguatezza e con la frustrazione provocata dal fallimento di un obiettivo. Perché la scelta criminale talvolta è una scelta obbligata dalle circostanze tragiche e disperate nelle quali gli individui si trovano. È la società, atroce e spietata, che pone delle persone fondamentalmente «buone», e quindi inadeguate alla carriera criminale, nella condizione di dover essere «cattive» per sopravvivere.
Questo mi fa venire in mente i personaggi dei Dardenne…
Come no, mi piace molto il cinema dei Dardenne. Per i pianisequenza, invece, prima di cominciare le riprese mi sono rivisto un po’ di film di Tarkovskij. [ride]
E Garrone? Penso a Gomorra, ovviamente, ma anche a L’imbalsamatore, ambientato e girato, tra l’altro, non lontano dai luoghi di Là-bas.
Sono un ammiratore del cinema di Garrone. Mi piace la sua coerenza, sia visiva che narrativa. In Gomorra è riuscito a raccontare il mondo della camorra, restituendolo così com’è, senza generare quell’identificazione che è tipica di certo cinema, soprattutto americano. I due protagonisti, i giovani delinquenti che sognano di essere come Scarface, nel finale fanno una brutta fine, muoiono come due fessi. Gli spettatori che fino a quel punto si erano immedesimati con le imprese di due, finiscono per sentirsi un po’ fessi anche loro.
E ora, hai già qualcosa in cantiere?
Sto lavorando a una sceneggiatura nata da un’idea mia e di Gaetano Di Vaio [presidente de I figli del Bronx, una delle tre case di produzione coinvolte in Là-bas, insieme a Eskimo e alla Minerva Pictures, ndr]. È incentrata su una rapina «col buco» e dovrebbe essere ambientata interamente nel nascondiglio in cui i rapinatori si vanno a rifugiare dopo il colpo. Ora siamo alla terza riscrittura. È dura scrivere una sceneggiatura che funzioni.
E quanto è dura girare un film che «funzioni», tanto più per un esordiente?
Terminate le riprese, mi sono trovato al montaggio con ottanta ore di girato: una quantità di materiale enorme, in parte anche incongruente. Una prima versione del film durava tre ore, e ovviamente non reggeva. Quindi ho tagliato tantissimo, tra cui quattro sub-finali. Questo per dirti che Là-bas ce lo siamo praticamente inventati al montaggio, lavorandoci per sei mesi, durante i quali sono anche tornato a girare perché mi ero accorto che c’erano dei buchi… Vabbè, ma del resto chi l’aveva mai fatto un film prima? [ride n.d.r.]