[***] – Il sottotitolo è squillante e non lascia spazio a lambiccamenti: al bando i buonismi, Là-bas svolge la parabola esemplare, secca ed essenziale, di Yussouf, uno dei tanti possibili Yussouf, appena arrivato dall’Africa a Castel Volturno (Gomorra, Italia) con un sogno da realizzare, che si ritrova ben presto sedotto dalle lusinghe di una carriera malavitosa; è la sua educazione criminale. Prima e più di questo, però, là-bas (laggiù in francese) è un luogo, un altrove imprecisato che annuncia da subito una distanza che non può essere e non sarà colmata. La distanza è quella che separa il migrante in cerca di fortuna in Italia dal proprio paese d’origine, ma è anche la sua alterità rispetto al contesto d’arrivo e, ancora, la nostra impossibilità di indigeni a comprendere davvero la sua storia, la sua vita.
Con la pura forza del cinema (fotografia, ripresa, montaggio), il film di Guido Lombardi, Leone del futuro – cioè miglior opera prima – all’ultima Mostra di Venezia, riesce a raccontare queste distanze come pochi prima. Dimostrando uno sguardo sorprendentemente originale sul territorio, il regista napoletano freeza Castel Volturno (luogo indefinito dentro un tempo indefinito) fin quasi all’astrazione, la svuota del bianco e la restituisce definitivamente per quello che è: un avamposto africano in Europa che resiste all’assedio. Non c’è il controcanto del bianco progressista, che tende la mano al fratello nero e apre alla possibilità dell’incontro. Non che non esista lungo i cinquanta chilometri e passa della sventurata via Domitiana, dove da anni operano meritorie realtà del volontariato che lottano per supplire alla flagrante assenza dello Stato; è che a Lombardi importa stare dentro il punto di vista dell’Altro, cioè una comunità di 20000 (ma forse molti di più) immigrati da decenni insediata sul territorio e, ci piaccia o no, ampiamente avviata all’autogoverno. E l’unico bianco a cui guarda è quello che sta fuori dallo schermo, anzi di fronte, che vede consolidata e non certo sanata, come in un gioco di specchi, l’alterità di cui all’inizio.
Così in Là-bas non si parla italiano, tutt’al più il dialetto tronco, sporco e brutale messo in bocca ai casalesi, difficilmente comprensibile già a una manciata di chilometri da Napoli. L’integrazione è un mito. Che Lombardi non si occupa né di inseguire né di smontare: a Castel Volturno e dintorni non è una questione all’ordine del giorno, se non in quanto integrazione criminale, alleanza opportunistica tra i clan locali e quelle fette di comunità immigrate che scelgono la via di adattamento all’ambiente più immediata e redditizia. La più logica. Qui non c’è più nemmeno bisogno di dire che il bianco è cattivo e sfruttatore: in realtà il mondo, ci insegna zio Moses, si divide – trasversalmente – tra morti di fame e avventurieri.
Solo nell’ultimo segmento del film, dopo aver lavorato prettamente di fiction, Lombardi cerca e trova l’aggancio con la cronaca, ponendo i suoi personaggi a confronto con quella che è passata alla storia come la strage di San Gennaro: cioè l’inaudito agguato perpetrato da un commando della camorra contro un gruppo di africani inermi radunati in strada a Castel Volturno, la sera del 18 settembre 2008. Ma è l’unica concessione a una «referenzialità esterna», peraltro efficacemente inglobata nella narrazione, di un’opera che trova la sua autonomia tutta dentro la sua forma filmica, capace di lavorare sui presupposti esposti sopra e farne cinema. Il «laboratorio» eterodosso approntato a Castel Volturno durante la lavorazione, con pochi soldi e molta passione, che ha coinvolto decine di ragazzi immigrati tra cui sono stati scelti i protagonisti, ha certamente contribuito a infondere verità al film, ne è stato il punto di forza. Questi attori-non-attori portano se stessi davanti alla camera e poi oltre, fino in sala, vivificando la pagina scritta del copione con un vissuto, il proprio, troppo impellente per non debordare dal fuoricampo.
Muovendosi a suo agio tra questi corpi e volti dolenti, e in sintonia con essi, Lombardi trova immagini potenti, forse addirittura fondative di un immaginario in costruzione, che lasciano sperare che il suo possa davvero essere un Leone del futuro: il lento movimento di macchina che inesorabile inchioda Yussouf al muro e alla sua moralità, i passi innamorati suoi e della dolcissima Suad che corrono veloci sull’asfalto infinito di una città-fantasma, il corpo nudo di Yussouf nella notte castelvolturnese, che finalmente smessi i panni del bianco capitalista che si era trovato a scimmiottare, trova infine scampo in una bandiera – che certo non può essere quella italiana.