Otto musicanti attraversano in fila l’inquadratura con le loro divise e i loro trolley. La curiosità come aspetto tutto umano che travalica differenze culturali ed etniche, capace di varcare la soglia della diffidenza e aprire a timidi scambi di comuni esperienze umane ed esistenziali. Una reciproca curiosità tra ebrei e musulmani che nasce quando una banda egiziana di otto elementi atterra in Israele senza che nessuno venga ad accoglierli. Spinti da orgoglioso senso pratico, cercheranno di raggiungere da soli la cittadina che li attende per l’inaugurazione di un centro di cultura musulmana, ma per un errore di quasi omonimia approderanno nel posto sbagliato, passando un giorno e una notte con i frequentatori di un ristorante del posto.
Con una sommaria conoscenza della trama, ci si sarebbe potuti aspettare un film sposato alla causa, militante ed impegnato, denso di raziocinio e spirito d’analisi, di denunce e analitici smembramenti delle ragioni del conflitto, un film politico insomma, dove si scopre invece che di politica ha solo quella dei “sentimenti”. Una scelta che protende al rischio, dove la minaccia della superficialità e l’insidia del melenso possono essere dietro l’angolo. Invece una piacevole sorpresa, ma che su due piedi lascia un po’ ansiosi sulle sorti e sul divenire della proiezione. Ci si chiede, in soldoni, verso quali lidi il film cerchi di approdare e soprattutto se riesca a mantenere, senza scivoloni, quel difficile equilibrio tra umorismo e umana vita, tra solitudini e bisogni d’apertura verso l’altro, un equilibrio ancor più difficile da mantenere vista la presente consapevolezza spettatoriale del contesto geopolitico dove i fatti si svolgono.
Eran Kolirin, anche sceneggiatore, sceglie un’ambientazione anonima e lunare, una cittadina desolata semidesertica della provincia israeliana, neutra nel senso di topograficamente irrilevante ma centrale come sfondo desolato che restituisce per contrasto maggiore enfasi alle sobrie vite di ogni personaggio. Otto egiziani di lingua araba che irrompono nella monotona quotidianità di una noiosa cittadina israeliana, potrebbero subire ostilità e chiusure, e invece scaturiscono slanci d’apertura tipiche di un vivere a forte senso comunitario, quello che può smussare sovrastrutture e rendere un incontro più autentico e franco, dove ciò che conta è lo scambio delle reciproche esperienze di vita. La prorompente albergatrice sogna ed è reduce di scelte sbagliate e amori falliti così come, dietro la dura scorza del direttore d’orchestra, si celano rimpianti insanabili e tragedie familiari. Il belloccio egiziano che dà lezioni di conquista all’imbranato e ancora casto israeliano. E poi espressioni, sguardi e gesti più che parole, la voglia di comunicare non come atto terapeutico del dar forma alle proprie sensazioni, ma come condivisione di umane vicissitudini, comuni in quanto ambiti di un comune sentire.
Kolirin forse mette in campo utopie. Una semplice ricognizione dell’essenza stessa dei rapporti umani, quando appaiono scevri da condizionamenti contingenti di stampo politico/sociale. E quando si lascia andare a lirismi, successivamente, irrompe con irresistibile umorismo: piani fissi che danno libertà espressiva alla trascinante mimica degli attori. Un film lieve che ricorda, e a volte se ne sente davvero il bisogno, quanto possa essere suggestivo e seducente il cinema anche attraverso la semplicità.
Se il cinema è anche sogno, Kolirin sceglie di dare voce alla speranza partendo dal più naturale e spontaneo atto interattivo tra i popoli, dove lo stesso cinema può essere testimone di comunanze e travalichi di confini: la bella proprietaria israeliana ricorda la commozione e l’immedesimazione di fronte ai film egiziani trasmessi quand’era ragazza ed era, come molte altre, innamorata di Omar Sharif. Proprio da questi ricordi è partita l’idea del film da parte del regista, quando in un canale israeliano i film egiziani venivano intervallati dal repertorio di un’orchestra araba, prima dell’imperialismo dei consumi e dell’assottigliarsi delle specificità: “Alla fine, sono sicuro che mio figlio e quello del mio vicino si incontreranno in qualche centro commerciale con le luci al neon sotto un’enorme insegna di McDonald. Forse è una consolazione, non lo so. Quello che è certo, è che abbiamo perso qualcosa in questo percorso…”
“la solitudine e il bisogno d’apertura verso l’altro” mi sembra,IN SOLDONI,l’elemento che emerge con naturalezza in tutto il contesto del film…Veramente una bella sorpresa..Ecco dove ho sentito quella frase?
P.S. un’altro film che passerà nell’anonimato nelle sale e nei festival?
Spero che Korilin abbia la possibilità di girare altre pellicole..Un Sorrentino ebreo?