di Simone Rossi / La fotografia di Emmanuel Lubezki pervadente. E’ lei che tinteggia il delirante montaggio del Malick atto-terzo, quello che dovrebbe chiudere il cerchio dopo The Tree of Life (superbo) e To the wonder (passabile). Il cerchio, invece, si fa linea retta tendente a infinito, mentre Rick (Christian Bale) annoiato protagonista di una vita sempre uguale a se stessa – e però opulenta, e però esagerata, e però dissoluta – ciondola da una festa all’altra, da una donna all’altra. Se una soluzione esiste, se un significato può aiutare a mettere un punto, bisogna prescindere dai propri sensi e da ciò che li circonda, bisogna credere ed elevarsi. Come? Udite, udite, attraverso i tarocchi. Quello che ne discende è un film diviso in capitoli (ognuno dei simboli estratti dalla cartomante, a un tempo sineddoche e identità di individui), volontaria ripetizione di un vuoto cosmico e, ahimè, registico.
Malick deve aver sancito con se stesso uno strampalato patto che non prevede altrui intromissioni: giro quello che voglio, nel modo che voglio, al ritmo che voglio, fregandomene che esista un pubblico. A voler essere buoni si può arrivare a pensare che ormai il Malick-pensiero sia addirittura oltre; un flusso di coscienza che una sceneggiatura proprio non può contenere, al quale non bastano più né le immagini, né le parole di questo mondo per rendersi comprensibile (e visibile).
Un film talmente richiuso su se stesso che risulta difficile anche soltanto comprendere passaggi elementari della storia: ad esempio, quale ruolo riveste Rick nel mondo dello spettacolo? Dovrebbe essere uno sceneggiatore in crisi, ma per quel che vediamo potrebbe trattarsi di un regista, un tecnico del suono o un costumista. Nulla di quello che fa, nessuno degli atti che compie, ci forniscono una qualche coordinata. Rick è solo una perenne voce off che aspettiamo, speranzosi, da un momento all’altro possa svelare nuovi filosofici scenari dell’esistenza e che invece spesso balbetta banalità che non acquistano spessore soltanto perché decantate con voce profonda e ritmo azzerato.
La verità è che Knight of cups è un film irrisolto che sembra uscito da uno shaker impazzito in cui gli ingredienti impiegati, presi uno ad uno, ricordano qualcosa girato meglio e detto meglio. Quali? Intanto il protagonista: Rick, un corpo-mente simil Guido Anselmi (8 e ½), ma del tutto sprovvisto di ironia. Vive immerso in un torpore cittadino che fa molto incomunicabilità-Antonioni–La notte, ma senza la sua giusta dose di poesia. Per non parlare dei volti/corpi che si alternano al suo fianco (le varie Cate Blanchett, Freida Pinto, Natalie Portman e non solo), donne patinate, bellissime, vestite impeccabilmente, ronzanti e monodimensionali (ma Winding Refn non ha già dedicato un gran film a questa fauna – leggasi The neon demon ?). Per non parlare dello stile dell’opera inteso nel suo complesso: qui il paragone con Sorrentino/Gambardella è un assist addirittura troppo ghiotto: semmai viene da chiedersi come abbia fatto Malick a portarlo ad un tale livello di esasperazione. Altro titolo italiano? “La grandissima Bellezza”.
Acqua ferma (una piscina), gocciolante (un rubinetto chiuso male), fuori posto (una condotta scoppiata in mezzo alla strada), rabbiosa (l’oceano): il senso – banale – dell’eterno ritorno ‘siddhartiano’ costringe lo spettatore ad una continua immersione senza boccaglio che annebbia la vista e fa chiudere gli occhi. Tornando in superficie, però, il panorama è piatto e la voglia di elevarsi, di guardare il cielo, che il regista vuol suggerire, è già passata da un pezzo.
Grande!!
Gran pezzo!