Rivedendo tutta insieme l’opera completa di Krzysztof Kieślowski, dagli esordi nei tardi anni ’60 fino a Film rosso (1994), la prima e più forte sensazione che se ne ricava è quella di una straordinaria compattezza poetica. La cosa ovviamente non sorprende gli estimatori del regista scomparso prematuramente nel 1996 (a soli 55 anni), conoscitori certo dei suoi film più diffusi e premiati: il Decalogo, innanzitutto, poi La doppia vita di Veronica e la trilogia dei colori. Tuttavia la retrospettiva dedicatagli nei giorni scorsi nell’ambito della dodicesima edizione del Napoli Film Festival, e che ha fornito appunto l’occasione per questa full immersion kieślowskiana, ha aggiunto nuovi elementi a conforto dell’impressione di cui sopra.
A fianco alle opere già note, infatti, la rassegna ha presentato anche alcuni lavori inediti in Italia, appartenenti alla prima parte della carriera di quello che è forse il più grande regista polacco di sempre: si tratta di cinque cortometraggi documentari e di sei lunghi narrativi. I cinque corti, estratti dall’abbondante produzione di non-fiction di K.K. (una ventina di lavori tra il 1968 e il 1988), formano, visti in sequenza, uno studio attento della realtà sociale e politica della Polonia di quegli anni, e una sorta di radiografia del tessuto civile del Paese al di là della Cortina di ferro. Z miasta Lodzi, Refren, Szpital, Siedem kobiet w róznym wieku e Gadajace glowy evidenziano la volontà di uno sguardo da documentarista “oggettivo”: macchina da presa piazzata nel mezzo degli eventi, abolizione della voce narrante, colonna sonora esclusivamente diegetica, urgenza di mostrare prima che di raccontare.
Molto interessante è Refren, datato 1972, registrazione delle attività di un’impresa di pompe funebri. Kieślowski adotta qui il punto di vista dei burocrati, il cui lavoro consiste nel registrare i decessi affinché i familiari possano provvedere alle esequie. Ne emerge, fuor di metafora, un mondo di vivi e di morti paradossale, dominato dai numeri, ai quali la vita e la morte sono sostanzialmente ridotte.
Szpital, del 1976, è la cronaca di una giornata qualunque all’interno dell’ospedale di Varsavia, dalle 6 di un mattino alle 6 del mattino dopo, scandita da un orologio che sullo schermo visualizza il passare del tempo ora dopo ora. Si tratta a tutti gli effetti di un esperimento di cinéma vérité, importato pochi anni prima dall’Occidente: val la pena ricordare che nel 1967 Frederick Wiseman aveva iniziato il suo studio sulle istituzioni pubbliche degli Stati Uniti, e che in particolare il suo Hospital è del 1970.
Dei cinque corti presentati il più esemplare è parso a chi scrive Siedem kobiet w róznym wieku (1978) che propone i ritratti di sette ballerine di età variabile, dall’adolescenza fino alla maturità, cioè dagli inizi fino al termine della carriera. Questi sette volti e corpi si mescolano insieme per comporre in definitiva un unico ritratto femminile, una Veronica con ancor più che due vite.
Tra i sei lungometraggi è bene ricordare che Krótki film o zabijaniu (Breve film sull’uccidere) e Krótki film o milosci (Breve film sull’amore), entrambi realizzati nel 1988, sono alla base di due dei film che compongono il Decalogo, rispettivamente il quinto e il sesto. Il progetto originario del Decalogo – monumentale opera realizzata per la TV polacca, costituita di dieci film della durata di un’ora ciascuno, ognuno dei quali dedicato a un comandamento della religione cattolica – prevedeva, infatti, che alcuni dei comandamenti venissero sviluppati anche in versioni più lunghe, destinate alla distribuzione cinematografica. In realtà Breve film sull’uccidere e Breve film sull’amore rimasero in questo senso due casi isolati.
Di Spokój (La tranquillità, 1976) e Amator (Il cineamatore, 1979) colpisce il coraggio della polemica politica in una fase in cui il blocco sovietico era ancora forte e apparentemente intoccabile. Il primo racconta di un uomo appena uscito di prigione, Antek Gralak, che desidera nient’altro che vivere una vita tranquilla. Piano piano riesce a costruirsela, sposando una brava ragazza e trovandosi un buon lavoro da operaio. La sua ingenuità lo disarma però davanti alla disonestà del capocantiere, che lo mette contro gli altri lavoratori in una delicata vertenza. Antek finirà perciò picchiato a sangue dai suoi stessi colleghi. Amator è la storia di Filip, impiegato statale con la vocazione del videomaker. Dapprima usato dai vertici aziendali perché con i suoi super 8 dia visibilità all’intrapresa pubblica, Filip viene in seguito osteggiato perché la verità che scaturisce dai suoi “film aziendali” risulta scomoda. Anche il suo matrimonio finirà per andare in crisi e lui per maledire la sua vocazione.
Se è vero che Kieślowski adotta anche in questi film la via prediletta dell’allusione e dell’allegoria, è vero anche che i suoi bersagli sono palesi: il potere politico della Polonia comunista, che si incarna in interpreti di volta in volta ottusi, violenti, subdoli. Per molti versi le storie di Antek e Filip sembrano appendici ex ante dei comandamenti: parabole esemplari di uomini puri, inermi al cospetto di forze più grandi di loro, e infine sconfitti. È fondamentale in entrambi la partecipazione di Jerzy Stuhr, sia come protagonista che in fase di scrittura dei dialoghi.
I successivi Bez konca (Senza fine, 1984) e Przypadek (Destino cieco o Il caso, 1987) anticipano le riflessioni sul caso che caratterizzeranno tutta l’ultima parte dell’opera di Kieślowski e in particolare la trilogia dedicata ai colori della bandiera francese. Il primo è un racconto morale che coinvolge le vite (e le morti) di tre persone: un detenuto politico, la moglie dell’avvocato appena deceduto che ne seguiva il caso e l’avvocato stesso, che dopo la morte continua a vegliare su sua moglie. Przypadek illustra invece tre possibili variazioni della vita di un uomo, a partire da tre differenti sviluppi di un banale incidente in stazione: in un primo caso l’uomo diventa funzionario di partito, in un secondo un dissidente, infine un medico disinteressato alla politica. È già evidente in questi due film l’influenza in fase di sceneggiatura di Krzysztof Piesiewicz, l’avvocato polacco che da qui in avanti affiancherà sempre Kieślowski nel lavoro di scrittura. Più rigidi e didascalici rispetto ai capolavori che li seguiranno, queste due pellicole nella loro “immaturità” illustrano ancor più nitidamente il discorso kieślowskiano sulla centralità del caso nell’esistenza umana in un modo caratterizzato dalla cecità di Dio.
Come si accennava più sopra, i sei lungometraggi erano finora inediti in Italia. È importante segnalare allora che la loro presentazione al Napoli Film Festival fa da preludio alla distribuzione nelle sale, a partire da quest’estate, in lingua originale e con sottotitoli in italiano. Evviva.