Cominciamo dalla fine, ovvero dall’ultima interpretazione che abbiamo avuto modo di vedere in un piccolo, delicato film sulla psicologia di una bambina divisa tra due genitori troppo presi da se stessi: Quel che sapeva Maisie, tutto raccontato dal punto di vista della piccola protagonista, ad altezza del suo sguardo, attraversato da un pudore e da una morbidezza a tratti degne del Truffaut cantore dell’infanzia. Ma, come dicevamo, c’è un’interpretazione, o, a livello ancora più essenziale, una presenza che turba questa minuziosa indagine sulla confusione emotiva di una ragazzina persa in un mondo di adulti. E la fautrice, la fattucchiera, la caotica disturbatrice dell’armonia è lei, Julianne Moore, capelli rossi e carnagione bianca venata di rughe e smagliature. Fa la parte che, alla sua età, siamo oltre i cinquanta, offrono più frequentemente alle attrici, ovvero quella de la Madre, liberata però dalla funzione archetipica di grande ventre che accoglie, rassicura, si sacrifica sull’altare del focolare domestico. La madre della Moore ha slanci di generosa vitalità ma è anche improvvisamente e inaspettatamente implosa, infantile e ferita, oppressiva e sfuggente. Fa la rockstar decaduta, che cerca di includere la figlia nella sua disordinata vita di partenze e ritorni. Nel confronto finale, quando capisce che la figlia ha trovato altrove un altro approdo emotivo, basta cogliere un’espressione del viso e l’esitante movimento nella nevrotica spavalderia di Julianne per cogliere il senso di quello che Ingmar Bergman aveva detto a proposito di Sinfonia d’autunno: anche lì c’erano una madre e una figlia, certo più adulte, in un conflitto più aspro, disperato, esistenziale, e c’era un momento in cui si incontravano e, secondo il maestro svedese, la figlia generava la madre. Un sottotesto, una vibrazione nascosta, una tensione verso una condizione più viscerale del rapporto madrefiglia, il viaggio al limite estremo fino al ribaltamento dei ruoli che non era nelle intenzioni dei registi Scott McGehee e David Siegel, ma che Julianne incarna come se stesse raccontando la storie di tutte le madri e tutte le figlie del mondo.
C’è la possibilità che abbia caricato l’apparizione della Moore in questo film con segni e significati trasportati direttamente dal suo penultimo, impressionante atto performativo in senso letterale, la messa in scena del corpo depravato e abusato e della psiche dilaniata dal fantasma dell’incesto più indicibile, quello madre-figlia, di Havana Segrand in Maps to the stars, ibrido cinematografico di David Cronenberg, tra fiammeggiante melò familiare e astratta rappresentazione della società dello spettacolo come Grande Rimosso dell’inconscio collettivo (le stelle hollywoodiane riflesso delle costellazioni dell’universo). Perche Havana fa l’attrice, anzi, la stella di Hollywood, decaduta e decadente come la mamma rockstar di Maisie, e vuole rifare un personaggio interpretato in giovinezza dalla madre anche lei stella del cinema. Ma non si tratta di un semplice, virtuosistico gioco di rimandi e citazioni, di specchi alla Eva contro Eva: c’è qualcosa di più e Cronenberg, con intenzione autoriale, fa parlare la sua interprete, musa di pensiero, in un processo che Julianne, attrice fisica ed intellettuale, esprime dando forma nello spazio al concetto di incesto, atto generatore nella visione cronenberghiana di un mondo fatto di sfruttamento, promiscuità, fragilità. La Moore si identifica in quel concetto, offrendosi senza inibizioni, senza risparmiarsi, attraversando con un tecnica superba il campo minato di una recitazione sopra le righe, entrando e uscendo in continuazione dalle gabbie mentali di Havana, con il coraggio di tirare fuori anche quella parte sciocca, superficiale, frivola che Robert Altman chiamava il “materiale rosa”, riferendosi alla performance della sua Shelley Duvall, smorfiosetta senza speranza di un desolante deserto californiano in Tre donne.
Fu proprio Altman a regalarmi, da adolescente, uno dei primi brividi di sessualità cinematografica, e artefice in carne e ossa di un simile immaginario fu ovviamente Julianne in America oggi, insuperato capolavoro su ritagli di frustrazioni, solitudini e struggimenti jazz dei piccoli uomini e delle piccole donne dei racconti di Raymond Carver. In uno degli episodi la rossa naturale, recitando la confessione di un adulterio completamente nuda dalla cinta in giù, alternando rimorso e crudeltà, compiacimento e durezza contro l’inerme e meschino marito, offrì già l’esempio della performance tout court, anima, corpo e mente, facendosi anche in quel caso soggetto tangibile nel campo minato di un concetto: la negazione del Desiderio, che si mostra e non si concede, di questa terra e al tempo stesso distante, di una stella polare appartenente a qualche altra galassia, dove si resta disorientati perché non ci sono mappe ad indicarci la strada.
Il mistero del sesso, come direbbe David Lynch (curioso che lui e Julianne non si siano ancora incontrati su qualche Lost Highways), la strada buia su cui si apre Mullholland Drive e si smarriscono e confondono le identità di Laura Elena Harring e Naomi Watts. In questa direzione Havana, e Maps to the stars è il film più lynchiano tra quelli di Cronenberg, rappresenta un po’ la grande parata con gli ultimi fuochi d’artificio, il mascherone del trucco che si sta sciogliendo, la sintesi espansa della galleria dei personaggi mooriani (sì, anche il suo cognome merita di assurgere al rango di aggettivo).
Nella Carol di Safe c’è la capacità di centrare, attraverso una lenta, inesorabile operazione di sottrazione nel mistero di una donna allergica al contaminato ambiente esterno, il sentimento di disagio e paura verso un’epoca storica (il post-moderno?) avvitata sul vuoto dell’estetica della superficie, che gira intorno e muore su se stessa, su una pelle sempre più bianca, trasparente, invisibile. A dirigere la Moore c’era Todd Haynes, uno dei suoi registi – in molti tornano a lavorare con lei, considerandola parte integrante del loro progetto estetico – che successivamente la chiamerà a dare forma e suono alle inquietudini represse e ai desideri nascosti di una casalinga disperata degli anni ’50 in Lontano del paradiso. In quell’occasione la Moore dichiarò di essersi ispirata “formalmente” ai personaggi dei grandi melò degli anni ’50 ma anche ad icone di un certo immaginario domestico come Doris Day, della quale aveva imitato il modo di muoversi, di ridere, di parlare. Adesione e mimesi in cui far vibrare le corde di un pensiero, di una riflessione, anche politica, su un contesto storico e sociale in cui era sempre la donna a subire, a fare falsi movimenti, ad essere in mezzo ai rendez vous di desiderio, dal quali,alla fine, risulta inevitabilmente esclusa.
Nello stesso anno Julianne diede una speculare e doppia performance in The Hours, vite di donne raccontate dallo scrittore Michael Cunningam e rispecchiate nella Mrs Dalloway di Virginia Wolf, con la Moore ancora casalinga degli anni Cinquanta intrappolata in un impossibile e inconfessabile desiderio omosessuale, rivelazione di un senso di inadeguatezza che passa per un memorabile momento di seduzione con Toni Colette.
In Boogie Nights Julianne ha invece saputo affondare nel corpo assoluto del cinema porno, nell’epopea di un certa stagione di quel genere cinematografico per la regia di un semi-esordiente Paul Thomas Anderson, tra l’entusiasmo naif degli albori e il degrado mortifero degli ultimi tempi, contraddizione assorbita dal personaggio di Amber Waves, che si dà agli altri nel grado zero della performance pornografica e si concede a se stessa nello struggimento di un sentimento materno proibito dal senso di colpa ma ricercato con una forza e una determinazione inaspettate.
Magari Anderson vede Julianne in questa oscillazione disorientante tra remissività, debolezza, incapacità di cambiare il proprio destino – Cathy che in Lontano dal paradiso guarda il treno andarsene con la sua ultima possibilità di amore e di felicità – e la tenacia, la convinzione di dover compiere un gesto etico, tanto come senso di rivalsa quanto come (im)possibile aspirazione all’assoluto. Il pentimento della moglie fedifraga di Magnolia, innamoratasi del ricco e anziano marito sul letto di morte, la confessione del tradimento e il rifiuto dei soldi, ne fanno un’anti eroina contaminata con l’aspetto edonistico e materiale di questa terra, portatrice però della dolorosa consapevolezza di un contatto autentico con la propria natura, uno svelamento senza compromessi nel girotondo di vite, identità e maschere. Non stupisce la spontaneità con cui la Moore appare nuda sullo schermo in un corpo intrinsecamente sensuale e mai artefatto che, ancora una volta, dà l’idea di aderire formalmente a un concetto di nudità emotiva, un turbamento più profondo di qualsiasi brivido erotico possa scuotere l’immaginario di un adolescente.
Per chiudere voglio dedicare a Julianne le parole di una canzone che mi risuonava nella testa mentre pensavo a scrivere qualcosa per lei: si tratta de La canzone di Jenny dei pirati, da L’opera da tre soldi di Bertold Brecht, il sogno di una povera cameriera sfruttata e maltrattata da tutti, che auspica l’avvento di un nave pirata per poterne diventate la regina e vendicarsi dei suoi usurpatori.
E più tardi, a mezzogiorno, sbarcheranno cento uomini e avanti nell’ombra verranno e li prenderanno tutti, una porta dopo l’altra, e in catene tutti quanti, per portarli innanzi a me. Chi si deve ammazzare?, diranno. E quel giorno ci sarà gran silenzio al porto, quando chiederanno chi deve morire. E così mi sentiranno dire: Tutti! e ad ogni testa mozza farò Opplà! E la nave a otto vele e cinquanta cannoni via con me salperà.
Parole che contengo un misto di desiderio di emancipazione, vendetta, riscatto. Ci pare di vederla Julianne la rossa, che capeggia una nave di pirati e inneggia a mozzare le teste dei suoi nemici, con la stessa spregiudicatezza con cui Havana esegue la danza della morte sul cadavere ancora caldo del figlio della collega rivale che le ha permesso di ottenere la parte cinematografica che fu della madre. O forse no, Julianne non è proprio così: è capace di un soprassalto, di un gesto compassionevole, di un movimento esitante che ci dice anche un’altra cosa: siamo tutti figli di un unico, grande incesto e come tali degni di un pò di comprensione e un po’ d’amore.
Grande, soprattutto un’intensa full immersion nella Moore, dove donna e attrice si confondono, rendendo un ritratto che più vero non si può.
è vero, è molto bello Fabrizio