E’ davvero uno di noi, un fratello maggiore più che un padre. Jonas Mekas è il pioniere di un cinema di ricerca, diaristico e antropologico. Ha fondato una rivista di cinema indipendente, ha svolto attività di cineclub, ha sostenuto le correnti più sotterranee e vitali della cultura cinematografica. E’ stato a contatto con alcuni tra gli esponenti dei movimenti artistici più rilevanti della sua epoca: Warhol, Maciunas di Fluxus, Dalì, Nam June Paik.
Lo abbiamo incontrato a Lucca, in occasione dell’inaugurazione di una sua personale presso la Fondazione Carlo Ludovico Ragghianti (http://www.fondazioneragghianti.it/) e di una parallela retrospettiva organizzata dal Lucca Film Festival (http://www.vistanova.it/). Jonas e Benn Northover, curatore della mostra e collaboratore di Mekas, si aggirano con circospezione tra le sontuose sale del complesso di San Micheletto, sede della Fondazione, quasi smarriti dall’ostentazione aristocratica e dall’incanto della città medievale.
L’incontro avviene la mattina dopo l’inaugurazione, in un bar della zona. E’ una bella giornata di sole. Tira una fresca brezza autunnale. Mekas ci rivela di non aver dormito molto bene. Evitiamo di approfondirne le cause. Se vorrà sarà lui a darci spiegazioni. Considerando i suoi 85 anni ci sembra comunque in ottima forma. Accanto a noi, i ragazzi del Film Festival, alcune delle responsabili della Fondazione, Sebastian, il figlio di Mekas, equipaggiato con una cinepresa super 8. Cristina ed io ordiniamo un cappuccino, Jonas vino bianco e formaggio…
Prima di passare all’intervista, potrebbe essere interessante qualche annotazione storico-critica.
La rivolta del cinema underground Usa contro Hollywood, intesa sia come struttura produttiva che come sistema “spettacolare”, nasce all’inizio degli anni ’60 in piccoli circoli culturali della West e East Coast, a San Francisco e a New York, nei campus universitari e tra gli artisti d’avanguardia.
Il New American Cinema deve molto alle avanguardie storiche europee degli anni ’20, specialmente dadaismo e surrealismo, filtrate attraverso un’esperienza di assimilazione e rielaborazione estetica e ideologica durata almeno un trentennio.
Dal 1960 Jonas Mekas, fondatore e caporedattore di “Film Culture”, guida il movimento dei cineasti indipendenti del New American Cinema Group, diffondendo e sostenendo il cinema indipendente come forma d’arte. Poeta, regista, critico, archivista, Mekas ha contribuito significativamente alla nascita dei moderni movimenti cinematografici d’avanguardia.
Mekas nasce nel 1922 a Semeniskiai, in Lituania. Sin da piccolo è attratto dalla poesia. Finiti gli studi inizia a lavorare come editore letterario ed è coinvolto in attività sovversive contro il regime nazista. Nel ’44 Jonas é rinchiuso nei campi di prigionia nazisti assieme al fratello Adolfas. Nel 1949 arriva in America e si stabilisce a Brooklyn, New York. Poco dopo acquista la sua prima cinepresa Bolex 16mm e comincia a filmare i momenti della sua vita. Durante i primi anni ’50 Mekas passa gran parte del suo tempo libero al cinema, nel duplice ruolo di spettatore e organizzatore di proiezioni. Nel 1955 pubblica il primo numero di “Film Culture, the America’s Independent Motion Picture Magazine”, con l’intenzione di parlare di cinema in modo nuovo, studiandone gli aspetti estetici e sociali, e che diventerà un veicolo teorico basilare a sostegno del cinema indipendente.
Qualche anno più tardi Mekas crea The Independent Film Award, richiamando l’attenzione intorno alle migliori opere realizzate fuori dai circuiti ufficiali e festeggiando la nascita di “una nuova generazione di film-makers. Il primo anno Film Culture assegna il premio a Shadows di John Cassavetes. Il secondo anno a Pull My Daisy di Robert Frank e Alfred Leslie, su un testo “improvvisato” di Jack Kerouac. Opere che riflettono da un lato motivi e temi analoghi a quelli trattati dagli scrittori della beat generation e dall’altro influenzati dalla Nouvelle Vague e da alcuni cineasti della vecchia generazione: Hitchcock, Renoir, Rossellini, Hawks.
Col tempo Film Culture si trasformerà in un contenitore di proposte riguardanti ogni ipotesi di alternativa produttiva e distributiva al sistema di Hollywood, che potesse aiutare a sostenere anche economicamente il genere indipendente.
Mekas definisce il New American Cinema come un movimento “primariamente etico” che, liberatosi dall’ipertecnicismo e dall’iperprofessionismo, si lascia guidare dall’intuizione e dall’improvvisazione, riuscendo “ad afferrare la vita dall’interno e non dall’esterno”. Un “cinema spontaneo”, alogico, creato durante le riprese, senza una sceneggiatura prefissata con i personaggi che si definiscono nel corso del girato. Un cinema di rabbia e poesia che rifiuta sia la morale borghese, sia i codici formali dell’arte.
Jonas Mekas partecipa al movimento che si era formato intorno alla Film-makers cooperative di New York, soprattutto con i suoi “Film Diaries”, un progetto tutt’ora in corso di scrittura della propria storia personale. I “diari” non sono altro che la registrazione ininterrotta per immagini di scene di vita quotidiana, personaggi frequentati dall’autore, momenti privati e scene pubbliche. Un lavoro di raccolta testimoniale ininterrotto che va avanti da quasi cinquant’anni, un work in progress che diventa tutt’uno con la vita stessa del suo autore ed è supportato di recente dalle nuove possibilità di ripresa non stop che la tecnologia video ha introdotto.
INTERVISTA a cura di Cristina Nisticò e Sergio Ponzio
– Independent Cinema?
Non vedo molti film ma mi sembra che tutto il cinema indipendente sia diventato piuttosto dipendente. Ma non ho veramente il diritto di parlarne perché il cinema indipendente è prodotto ovunque nel mondo e io conosco solo la situazione a New York, non so ad esempio cosa avviene qui a Lucca…
Ci sono tante cose che accadono in giro, su internet si può trovare di tutto […] Ci sono più possibilità di diffusione, c’è uno scambio immediato. Possiamo vedere quel che accade nello stesso momento a Tokyo, San Paolo, Ottawa…
Il fatto è che oggi è molto facile con Youtube, anche se poi vedi che ovunque stanno facendo le stesse cose. Vogliono tutti essere divertenti, comici, girare piccole clip divertenti. Se qualcuno vuole realizzare qualcosa che non sia un video divertente, poi è difficile che venga mostrato, che lo si possa vedere. Ci si aspetta che tu sia divertente, veloce, piacevole.
Anche se da qualche altra parte qualcun altro starà facendo probabilmente qualcosa di diverso che varrebbe la pena vedere. Forse il problema oggi è proprio l’eccessiva facilità di mostrare quello che si fa.
Non avere soldi non significa essere ind
ipendenti. Penso che Spielberg sia più indipendente di alcuni di quelli come voi, per esempio. Spielberg ha i soldi, è libero di fare ciò che vuole. Potrebbe permettersi di fare film e non incassare nulla, perché di soldi ne ha già abbastanza. E quelli che non hanno soldi cercano di procurarseli, di fare film che abbiano successo commerciale, diventano come Cinecittà, non sono affatto indipendenti. Spielberg è indipendente, Antonioni era indipendente, Fellini…, loro sì che erano indipendenti.
Io non sono indipendente. Io dipendo da tutto, da questo vino (indica il bicchiere), dipendo dai miei amici… Sono molto dipendente, ed è giusto esserlo. Lo siamo tutti del resto, perché tutti abbiamo delle radici: veniamo da qualche parte, abbiamo le nostre famiglie, un paese d’origine, i nostri amici. Dovremmo tutti sentirci dipendenti da qualcosa.
Per quanto tempo saremmo in grado di sopravvivere senz’aria? O acqua? Adesso per esempio dipendiamo dal petrolio, per il quale siamo disposti a farci la guerra. Ci ammazziamo per il petrolio. Dipendiamo dal sistema dell’informazione, non più tanto dalla carta stampata…
Possiamo cercare di individuare un’area specifica in cui sarebbe possibile essere indipendenti, da qualche parte qui (indica la testa) e qui (indica il cuore).
Esistono piccoli gradi d’indipendenza; magari qualcuno di noi riesce a essere indipendente all’uno, due, tre per cento. Dal massimo livello di dipendenza, dal cento per cento, si può tentare molto lentamente di liberare piccole parti della propria mente, ma questo è tutto. […]
– Digital Revolution?
“Ho avuto la mia prima videocamera nel 1987. Fino a quel momento avevo usato una Bolex. Sentivo di aver ottenuto tutto quello che volevo da una Bolex. Addirittura cominciai a notare che stavo iniziando a imitare me stesso. Stavo tornando al punto di partenza. Era giunto il tempo di lanciarsi in qualcos’altro. Quel qualcos’altro era il video. Mi ci sono voluti dieci anni per padroneggiare la mia Bolex. Pensavo che il video fosse molto più semplice. Si dimostrò difficile quanto il film.” dal catalogo “Jonas Mekas”, Edizioni Fondazione Ragghianti, 2008.
Si tratta piuttosto di evoluzione che di rivoluzione. Qualcosa che è iniziato a partire dai primi anni ’60, e poi è andato crescendo, trasformandosi. In realtà si continua a fare le stesse cose, solo che c’è meno pazienza. La gente si annoia nella maniera sbagliata, peggiore, vuole vedere cose molto veloci, corte e ridere, per poi cambiare subito canale e passare ad altro. […]
Il video consente di riprendere senza fermarsi mai, riprendere la vita così com’è, oppure puoi fare finta, falsificare e anche la finzione è un aspetto della realtà, così sei libero di riprendere (tape) o falsificare (fake).
– Filming friends
Di solito filmo soltanto i miei amici, le persone che conosco. Non filmo gli estranei. Ho sempre fatto film solo per me stesso, per poterli rivedere, per poter ricordare e condividerli e mostrarli agli amici. Non è arte, io non faccio arte, filmo soltanto.
– The Exhibition in Lucca (6 Opere di Jonas Mekas – Lucca, Fondazione Ragghianti, 10 ottobre – 2 novembre 2008)
Le opere in mostra rappresentano diversi aspetti della mia vita, dei miei interessi, di quello che sto facendo in questo periodo. Ad esempio ci sono questi fotogrammi ingranditi tratti dai miei film (Frozen Films). M’interessava la possibilità di mostrare questi tre o quattro fotogrammi, di quello che può succedere nella relazione tra di loro. Un po’ quello che in poesia è l’haiku, una composizione di poche righe, un certo numero di sillabe, un genere di poesia molto condensato, distillato. Così questi tre o quattro fotogrammi sono come l’haiku, contengono una piccola storia. La poesia non è astrazione, non sono solo i romanzieri a raccontare delle storie. Non si tratta esattamente di fotografia e non è cinema. […]
Inoltre ero interessato a quello che succede quando si mettono insieme un certo numero di monitor che mostrano cose diverse. Lo spettatore allora inizia a saltare da un monitor ad un altro, realizzando un montaggio autonomo, personale. Puoi rimanere a guardare l’immagine su uno dei monitor quanto ti pare, oppure puoi decidere di andare da qualche altra parte. L’installazione di sedici monitor nella galleria (Quartets) è come un grande animale di energia, con un suono fragoroso, con tutte quelle immagini… c’è un’energia con cui ti devi confrontare. Non la puoi ignorare.
Non è così facile mettere insieme sedici monitor con sedici immagini diverse. Lui (n.d.r. Benn Northover, giovane collaboratore di Mekas e curatore della mostra) ha scelto la migliore combinazione dei monitor, in modo che non ci fossero distrazioni, ma solo le immagini, in modo che non ci fosse nient’altro che i riquadri degli schermi.
Benn Northover: abbiamo lavorato in team, è stato un processo naturale senza forzature, è stato il risultato delle ottime circostanze. Noi andiamo in giro, viaggiamo, e questo ci aiuta a comprendere meglio le cose. Siamo stati a molte mostre e proiezioni, e spesso la gente non faceva molta attenzione, così per questa mostra abbiamo pensato… (continua Mekas) …poi dipende anche dal luogo dove ti trovi, da quanti ambienti ci sono, da come si possono utilizzare, ma questo non è il mio lavoro. Io realizzo le opere, qualcun altro le dispone nel miglior modo possibile. E così è stato fatto.
– Politics?
La politica è qualcosa che influisce sui cambiamenti dell’umanità. Esistono politiche positive e negative. Io sono interessato unicamente a quelle positive e alle persone che riescono ad avere un’influenza positiva sulla società. Mi riferisco a coloro che sono riusciti a sviluppare quel 3-4 o 5% di indipendenza, nel corso degli ultimi 50-60 anni, il periodo che conosco meglio. Gente come John Cage, Buckminster Fuller, George Maciunas di Fluxus, forse Duchamp, gente così. Hanno influenzato la beat generation, anche la cultura hippy in quegli aspetti come le comuni, quindi hanno avuto un effetto positivo. Queste sono le politiche che mi interessano.
Il resto della politica è negativo, distruttivo, ha reso il ventesimo un secolo orribile, io ne so qualcosa… Ora dicono che il secolo che sta iniziando potrebbe essere ancora più orribile di quello appena trascorso. E’ questo grazie ai politici.