In seguito al battage pubblicitario che ne ha sottolineato lo humor, dopo aver visto il trailer che altro non è che un collage esclusivamente delle scene più divertenti, ci si attendeva dunque la commedia intelligente e disinibita che aveva fatto ridere il pubblico della Berlinale, la nuova pellicola di stampo british alla Calendar Girls che valorizza splendide signore di mezza età e dà voce al loro sacrosanto desiderio di sessualità.
In realtà le cose non stanno proprio così: in Irina Palm non si ride, al massimo si sorride in alcuni momenti (soprattutto quelli del furbastro trailer in circolazione) ma per il resto del tempo si riflette, anche con un po’ di amarezza, e volendo ci si commuove. Ci sarebbe stato anzi da versare fiumi di lacrime per una vicenda che non avrebbe sfigurato in qualche melodramma del passato, ovvero una donna costretta a prostituirsi per salvare un bambino gravemente malato che ha bisogno di una costosa operazione. A salvare la vicenda è innanzitutto il fatto che al centro c’è una donna non più giovane, grassoccia e sfiorita, l’irriconoscibile ex sacerdotessa del rock Marianne “Sister Morphina” Faithfull (tornata al cinema con Marie Antoinette di Sophia Coppola), nonché nonna, una categoria raramente al centro dell’attenzione cinematografica. La sua attività sessuale, ed è questo il vero colpo di genio della sceneggiatura, si svolge poi attraverso un muro, in quanto solo un buco la collega ai suoi clienti senza volto, di cui conosce, attraverso il palmo della mano, soltanto il totemico strumento.
Descritto come una “tragicommedia” dal regista Sam Garbaski, nato in Baviera e con all’attivo una lunga attività di regista pubblicitario, Irina Palm alterna effettivamente momenti più leggeri (l’apprendistato “manuale”, la routine lavorativa affrontata da Maggie con tanto di grembiule e pantofole) all’accumularsi di miserie nella vita di chi ha sempre sbagliato tutto: a ogni gradino che avvicina la protagonista al suo scopo, il film è infatti connotato da un ritmo ripetitivo scandito da scene simili, si contrappone immancabilmente una caduta di Maggie o di chi le sta intorno verso il baratro e non mancano pietre che cadono sulla testa della working class sette giorni su sette, come recitava un film di Ken Loach. Se a evitare facili patetismi contribuisce uno stile cinematografico improntato principalmente sui primi piani, che valorizzano la grande prova di recitazione della Faithfull e soprattutto di Miki Manojlovic (che coniuga mirabilmente ironia e fragilità), serpeggia tuttavia in filigrana un larvato desiderio di rassicurare lo spettatore, particolarmente evidente nella rappresentazione un po’ troppo edulcorata del mercato del sesso, in realtà ben più spietato e crudele.