«Una carrellata è un fatto morale» diceva il personaggio del cinefilo interpretato da Gianni Amico in Prima della rivoluzione, mentre di fronte a lui Fabrizio, il protagonista, si struggeva d’amore. Era il 1963, in Europa soffiava la Nouvelle Vague, e Bernardo Bertolucci, al suo vero esordio dopo la prova pasoliniana de La comare secca, credeva fortemente (e noi, con lui, ancora ci crediamo!) che i movimenti di macchina nel cinema dovessero corrispondere a un’intenzione profondamente sentita, dovessero portare in immagini il pensiero, piuttosto che indulgere in fascinazioni formalistiche e virtuosismi fine a se stessi.
Ironia spietata della vita (o forse di chi scrive), cinquant’anni dopo il regista di Ultimo tango, ferito nel corpo da una malattia, è costretto su una sedia a rotelle, una di quelle (ma no, sarà un modello più moderno…) che Godard utilizzava per realizzare i suoi primi, primitivi carrelli negli anni ’60. Ecco allora che il maestro è obbligato a riposizionare il proprio cinema aereo, adattandolo a un punto di vista meccanicamente vincolato, piombato al suolo. Da questa Sedia elettrica (questo il pregnante titolo del making of del film curato da Monica Strambini) Bertolucci racconta, in Io e te, di Lorenzo e Olivia, fratellastri adolescenti (lui) o poco più (lei), autoreclusi per una manciata di giorni nello scantinato di un palazzo ai Parioli. L’azione (alla base c’è il romanzo di Niccolò Ammaniti) non esce praticamente mai dal seminterrato, luogo ancestrale in cui cullare i loro corpi fragili, recalcitranti alla vita.
Take your protein pills and put your helmet on…
Come se combattesse contro le due costrizioni, quella della propria condizione fisica e quella della drammaturgia di letteraria derivazione, e volesse a tutti i costi affermare la superiorità dell’occhio nei confronti del corpo e della pagina, Bertolucci impone alla ripresa un dinamismo difficilmente immaginabile per lo spazio angusto di uno scantinato. La camera scruta ogni angolo del set-rifugio, ne indaga le cento risorse (l’armadio dove accucciarsi per smaltire la «rota», la valigia con gli abiti appartenuti alla misteriosa contessa, il bagno in cui ri-generarsi), piroetta rasoterra sporcandosi di vomito briciole insetti. Ma soprattutto l’occhio febbrile di BB si vota alla scoperta dei due suoi protagonisti. Innamorato della giovinezza che essi incarnano, s’impegna a cogliere, nei loro pugni in tasca, i segni, finanche i più minuti, del cambiamento, della crescita, che si sta compiendo. Si assume, di più, l’incarico di pre-vedere il movimento laddove ancora vigono la chiusura e il rifiuto: così, se necessario, zigzaga ossessivamente a vuoto con Lorenzo, che imita il moto di un animale in cattività, oppure danza a perdifiato con Olivia…
Nel pieno possesso delle proprie forze Michael Haneke svolge la cronaca di una situazione dai risvolti, in fondo, non troppo dissimili. Il viaggio verso la fine dell’ottantenne Anne/Riva, e le cure che le riserva il marito e compagno di una vita Georges/Trintignant, si tengono in una realtà di prigionia autoimposta della quale per due ore abbondanti non conosceremo alcun fuori. Gli assalti dall’esterno al fortino, incarnati dalla figlia Eva/Huppert e dall’invadenza di un misterioso piccione, sono da subito osteggiati, poi rifiutati, infine banditi.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale…
Haneke racconta questo tempo col suo sguardo da laboratorio sulle vicende umane. La mdp compie movimenti composti e lineari, il pianosequenza è largamente dominante, ma è soprattutto la macchina fissa a imporsi, sui volti dei due protagonisti, sugli ambienti vuoti della loro casa borghese. La vera severità, nel cinema così spesso definito crudele del regista già due volte Palma d’Oro, sta proprio lì, nel saldare il nostro sguardo a un’inquadratura-mondo e non lasciarci tregua. Amour è un’esperienza di visione estrema alla quale non si può sfuggire, come immersi in un quadro perfetto e immodificabile. Si vorrebbe, si implora un movimento che faccia respirare l’occhio, che offra un controcampo alla fissità terminale e ineluttabile (l’inizio del film non lascia dubbi su come andrà a finire) che immortala il destino della coppia. Ma nella concezione del cinema di Haneke qualsiasi movimento indagatorio sul corpo in disfacimento di lei o sull’emotività primaria di lui sarebbe stato un atto di pornografia, tanto più inaccettabile dal momento che sul piatto ci sono la vita, la morte e l’amore (su questo si vedano le belle riflessioni che Fabrizio Croce fa discendere direttamente dalla memoria cinefila). Tuttavia ciò non impedisce al cineasta austriaco, tra le pieghe di questo rigore, di sciogliersi, forse come mai prima, e di scioglierci, con piccoli momenti di tenerezza affidati all’espressività sconfinata di Jean-Louis Trintignant.
Now it’s time to leave the capsule if you dare…
Le due versioni di Space Oddity (quella originale e quella discutibilmente italianizzata in Ragazzo solo, ragazza sola), Boys Don’t Cry dei Cure, Rebellion (Lies) degli Arcade Fire, accompagnano le immagini di Io e te. Totale assenza di colonna sonora, e solo Beethoven, Bach e Schubert, rigorosamente diegetici, nella colonna sonora di Amour. Basterebbe la composizione delle due soundtrack per dire della divergenza «estetico-espressiva» che i due film conoscono a partire da situazioni comuni. Eppure nello scatto finale trovano forse una nuova fratellanza, quando entrambe le coppie, in modalità per forza di cose differenti, tendono però ugualmente verso l’esterno, ricercando una vita al di fuori del rifugio, al di fuori della sala. Come in quel film di Bellocchio, in cui il cadavere, appena ucciso dalla storia nel buio pesto di una tana, ne usciva con le luci dell’alba e ritrovava incredibilmente la vita.
Il punto è che prima o poi bisogna uscire – per quanto sciagurato, irragionevole o impossibile il gesto ci appaia.