Perchè sì |
Perchè no |
---|---|
di Giovanna Quercia
Se la bellezza di un film si misura dalla sua capacità di persistenza nei pensieri e nella memoria sensoriale di chi lo ha visto, allora Into the Wild è senza dubbio un gran bel film. Riemergono, il giorno dopo la visione, due sensazioni contrastanti: da una parte le immagini del protagonista sorridente e spavaldo, gli immensi paesaggi, la natura rigogliosa; dall’altra quel sentimento di malinconia, di dolore quasi, che non si può non sentire seguendo la parabola di Chris McCandless, nome del personaggio interpretato da Emile Hirsch – davvero un novello Leonardo Di Caprio – nonché della persona reale che ha ispirato prima il libro di Jon Krakauer e poi la sceneggiatura di Sean Penn. Quella di Chris, infatti, è una di quelle storie esemplari, pure, in cui è impossibile riconoscersi integralmente ma che coglie una pulsione profonda, più o meno confessabile che c’è – o c’è stata – in ognuno di noi. La sua vicenda ci interroga perché lui ha vissuto e realizzato effettivamente, e radicalmente, quel sogno di fuga, di libertà totale, di taglio netto da tutto ciò che ci separa da noi stessi e da una vita autentica all’interno della cosiddetta Civiltà; un sogno che prima o poi visita tutti, soprattutto a 20 anni. Ebbene Chris McCandless lo ha fatto: ha donato i suoi risparmi, distrutto la sua macchina, ha tagliato drasticamente i ponti con la sua famiglia – bersaglio principale della sua rabbia e origine di tutto il suo dolore – ed è partito da solo, armato della sua giovinezza e con l’unico intento di ricongiungersi con la parte più selvaggia di se’. Vuole ribellarsi ai suoi genitori, certo, ma anche sperimentare quelle sensazioni forti e primordiali che solo una vita a contatto con la natura può offrire. Vuole farcela da solo, senza soldi, senza congegni tecnologici (a eccezion fatta per un fucile, per essere precisi…), da ultimo senza neanche la compagnia degli amici incontrati on the road. Rifiuta persino l’amore di una romatica ragazza che sembra fatta apposta per lui: “La felicità non è nelle relazioni, Dio ha disseminato la felicità ovunque” dice al vecchio che lo vorrebbe adottare. Si procura da mangiare con lavori a giornata, ma anche questo è troppo per lui: arriverà in Alaska e lì morirà, nel fitto della natura selvaggia, dove sopravvivere è un’impresa che succhia tutto il tempo e tutte le energie e dove anche un banale errore, una sventatezza, si paga con la vita. Se il personaggio è semplice nella purezza dei suoi intenti, Into the Wild è però un film complesso: Sean Penn è sicuramente empatico e solidale con il suo enfant sauvage, ma non manca di sottolinearne le ambiguità, le ingenuità, gli eccessi. Né tantomeno occulta il dramma familiare psicologico che sta alla base delle scelte radicali di Chris, come invece avrebbe fatto un regista europeo degli anni ’60-’70 (quel cinema fenomenologico sulle vite ai margini che pure è sicuramente uno dei riferimenti di Sean Penn). Grazie anche ai molteplici racconti che accompagnano la parabola di Chris, in particolare la voce della sorella che ci trasmette l’insopportabile ansia dei genitori lasciati senza lo straccio di una notizia, Chris ci appare sì come un eroe romantico, a tratti quasi un superuomo nicciano, ma anche come una creatura tragica che tenta invano un’impossibile liberazione dai propri demoni infantili. Il film è un racconto polifonico in cui si intersecano il racconto in prima persona di Chris, la sua voce interiore rappresentata dalle belle canzoni che Eddie Veber (il frontman dei Pearl Jam) ha composto su misura per le sequenze già montate del film, la voce narrante della sorella che rimarca le ferite che Chris si lascia dietro, la voce del vecchio che è anche l’ultimo essere umano a vederlo vivo, e infine ci sono le frasi del diario che il vero Chris McCandless ha lasciato come testimonianza. Non sempre i racconti coincidono, né tantomeno coincidono sempre tra loro i pensieri che lo stesso protagonista esprime. E quelle ultime parole scritte a mano durante l’agonia, che dicono più o meno “la felicità ha senso solo se condivisa” arrivano come una fucilata che rimette in discussione il dogma della libertà possibile solo nella solitudine. Forse Chris ha un lancinante rimpianto finale, forse ha trovato la saggezza in punto di morte. Comunque la sua è una storia struggente, e Into the Wild un film che lascia giustamente turbati. |
di Arianna Biagi Into the wild è uno di quei film che è quasi impossibile non amare. Ma proprio come succede in amore, anche rispetto a questo film l’emotività tende a nasconderne i difetti. A rimuovere quei particolari che, a discapito del fascino d’insieme, risultano decisamente stonati. Il rigore è però d’obbligo davanti ad un film certamente originale e importante ma a tratti anche pretenzioso. Se è vero, infatti, che la storia è ispirata a fatti realmente accaduti, non appare altrettanto reale la sceneggiatura quando mette in bocca ad un poco più che ventenne, idealista e coraggioso, di fronte ad una seducente sedicenne che gli si offre, la domanda da trito moralista, sull’età della ragazza! E – ulteriore paradosso – una volta accertata la sua condizione di minorenne, il protagonista quasi a farle la paternale, le dice che tra loro non può accadere nulla. La battuta sarebbe stata incredibile persino sulla bocca di un quarantenne, ma sul volto angelico del ragazzo appare addirittura ridicola, regalando un sorriso ironico, se non quasi comico, allo spettatore. Netto è poi il contrasto fra l’idilliaco cammino del giovane alla ricerca di se stesso, mentre attraversa vari stati americani e la brutalità della solitudine nella quale muore. E’ come se l’innamoramento dello stesso regista per il personaggio avesse prevalso sulla necessaria cura di un percorso umano e interiore, superficialmente toccato nella fretta della mitizzazione tutta americana, del ribelle on the road. Per entrare nello specifico, sarebbe stato forse più cinematografico e meno spettacolare il taglio di molte delle sequenze con i due nomadi-figli dei fiori che vivono sulla roulotte, a favore di una maggiore caratterizzazione del personaggio, i cui stati d’animo vengono raccontati con brevi frase da cartolina, in sovrimpressione. Scollato appare anche l’atteggiamento del giovane rispetto ad una famiglia e a delle istituzioni sulle quali sappiamo ben poco. Forse basta l’immaginazione o l’esperienza a colmare i vuoti narrativi, ma non per un pubblico cui quelle dinamiche interiori non sono note. Diversamente la rabbia del protagonista appare infantile ed esagerata e persino quei genitori a causa dei quali praticamente egli muore, sembrano vittime di un assurdo rancore. La gioventù, il coraggio e l’entusiasmo giustificano tutto è vero, eppure resta il senso di un’operazione volutamente commerciale, volta all’esaltazione della figura attanziale del ribelle capace di suscitare più emulazione che umana comprensione. La colonna sonora segue lo stesso intento sessantottino-americano-beat generation accompagnando per le strade della liberazione il protagonista, come un tormentone da autostop, a enfatizzare il personaggio e la vicenda piuttosto che a raccontarne la vita, il rapporto con la natura tanto disperatamente cercata ma poco presente – al di là dei paesaggi – nel film. Va a finire che ciò che di eversivo e geniale c’è stato nella storia di Christopher McCandless si infrange nel sogno di plastica americano di libertà, se non addirittura nel rovesciamento dell’obiettivo quando, in punto di morte, il protagonista immagina di tornare fra le braccia dei genitori. Arianna Biagi ha un sito personale dove pubblica i suoi scritti. |