di Serena Soccio/ L’uomo è destinato ad essere annientato dalla natura? Sembrerebbe di sì (e non solo da quella) e ce lo ricorda superbamente Leopardi, che assume con La Ginestra o Fiore del deserto, ancor più consapevolmente quella posizione anti-antropocentrica per la quale paragona, in fior di metafora, le formiche schiacciate dalla caduta a terra di un frutto, alla distruzione da parte del Vesuvio delle civiltà di Pompei ed Ercolano.
La natura può distruggere, Il secolo superbo e sciocco può annichilire, il vulcano è impietoso con il suo esplodere prima e ingoiare tutto in un fiume di lava poi ma la ginestra sta lì (che altro può fare) a rappresentare la precarietà della vita a resistere (come atto di creazione) con fierezza e resilienza spargendo il suo profumo, mantenendo intatta la sua fragranza.
E’ con questa metafora tra fuoco (sacro) e fiore (umanità, mondo, arte) che mi accosto al cinema di Herzog e ancora di più al suo ultimo lavoro, che parrebbe piuttosto esplicitamente un’esplorazione della trascendenza.
Nel suo incedere ossessivo tra potenza e precarietà, Herzog coltiva da sempre la capacità di inoltrarsi in profondità, da e oltre l’esperienza umana, assumendosi un’idea di precarietà appunto là dove per precario intendiamo il suo significato etimologico, ovvero “qualcosa ottenuto attraverso una preghiera, una richiesta che avviene per ogni mezzo” e per questo motivo diventa fragile e avventurosa.
In un’epoca di finti viaggiatori che stravolge completamente il senso dell’avventura, un’epoca di terrore dove per fare dieci passi ci affidiamo agli itinerari di googlemap e la relazione tattile col mondo si limita a quella del touchscreen, dove il viaggiare diventa sinonimo del perimetro della nostra zona di confort, lo sguardo di Herzog continua ad essere sorgivo, testimonianza onesta anche grandiosa a volte, di un attento umanissimo viaggiatore.
Non è un caso infatti, nella ricerca continua dell’esperienza e del suo superamento che egli stesso, la realtà e la poetica dei suoi lavori, finiscano per coincidere in forma di cinema (documentario sarebbe limitato e lui, sappiamo, di limiti non ne vuole sapere) nell’attraversamento spesso verticale di quei territori che predilige, ai limiti dell’habitat umano, dove le difficoltà esistenziali dei personaggi si intersecano in com-passione alle difficoltà operative della troupe, della tecnica della macchina da presa, in quel Gesamtkunstwerk che produce il tipico smarrimento estatico nello spettatore.
Credo che con Into the inferno, seguendo forse il filone dei celebri set amazzonici tempestati dalle piene dei fiumi, o l’avventura tra i ghiacciai di Grido di Pietra sulla parete del Cerro Torre in Patagonia, o ancora le vette dell’Himalaya per seguire l’alpinista Messner in Gasherbrum-la montagna lucente, e lo stesso La Soufriere una sorta di prologo anticipatorio, in cui già si avvicinava ai vulcani, Herzog si sia voluto superare, cimentandosi, in un’avventura metaforica e stilistica molto affascinante: penetrare in profondità il mistero e la sua narrazione o anche consuetudine interpretativa, attraverso l’osservazione ravvicinata (dal di dentro le cose cambiano di prospettiva?) di quel mondo sotterraneo che collega irrimediabilmente la preistoria dell’universo al suo futuro, alla natura paesaggio magico e ancestrale che gli uomini, spesso subendone devastanti conseguenze, hanno popolato di spiriti e divinità nella ricerca di una comunicazione con l’ignoto o per scongiurarne l’ira funesta.
Inferno dunque è qualcosa “che sta sotto” e che ci fa paura (attraverso i racconti perpetuati arrivati fino a noi, come rocce metamorfiche in cui si sono stratificate le credenze), un significato in cui bisogna calarsi come speleologi per coglierne un senso diverso da quello dato, che ci minaccia e attrae anche per la sua potenza e imprevedibilità, che non riusciamo a controllare ma che attira come una calamita la nostra ricerca di verità.
Herzog come un moderno Alighieri privato del giudizio, seguendo l’antica passione per la geologia si inoltra in compagnia del vulcanologo Oppenheimer nell’affascinante mondo dei vulcani attivi, calandosi pericolosamente nel fuoco delle montagne più leggendarie dall’Indonesia al Paektu della Corea del Nord, dall’Islanda all’Etiopia.
Into the Inferno è sfaccettato come una roccia sedimentaria in cui si depositano informazioni man mano che ci avviciniamo ed entriamo in relazione con i luoghi, gli uomini, le storie.
Attraverso lo sguardo della cinepresa e la passione del regista a mostrare ciò che di solito non siamo abituati a vedere, un paesaggio si può attraversare in lungo e in largo, o anche simbolicamente, sfruttando la conformità suggerita dal vulcano, in profondità.
Herzog si scaraventa in quella profondità o ne accarezza scrutandole le pendici dai crateri, in una ricerca creativa che trascende in parte gli esili confini della curiosità scientifica.
Regala immagini potenti, spettacolari di un immancabile rosso prevalente che scompiglia la ragione in messaggi codificabili solo dal cuore pulsante della terra alle nostre cellule epiteliali.
Una profondità rossa, incandescente, calda, viva, che ribolle come viscere di un mostro enorme o la digestione di un dio capriccioso con il quale ogni volta dobbiamo decidere come relazionarci.
Le riprese vertiginose a strapiombo sulle voragini, il fiume luminescente di lava che con la sua estrema bellezza si insinua liquido, quasi erotico inghiotte la telecamera e il nostro sguardo e lo fa vibrare come davanti ad un mandala per la meditazione sul primo chakra, resa ancora più suggestiva e forse fin troppo epica (fa un po’ colossal) dal lirismo della musica.
Oltre ad indagare l’aspetto geologico e antropologico (ironico il buffo antropologo californiano completamente esaltato da questa immersione dell’origine in era primordiale), riesce a ricollegare l’antichissimo e ancora presente legame tra mitologia, vulcani e spiritualità che viene esplorato con curiosità e senza giudizio e ricostruito attraverso la narrazione degli uomini delle diverse comunità di tutto il mondo, con una ripresa che non aggiunge mai nulla a ciò che di fatto è ma che coglie il trascorrere del tempo restituendo un documento verosimile.
Così oltre al fuoco c’è il racconto nella stratificazione del laboratorio chimico ed esistenziale di Werner Herzog; senza narrazione non esisterebbero i popoli, la storia, le credenze, le mitologie, le singolarità, le cosmogonie, il tempo.
La lava seccata durante il suo tragitto, all’impatto col tempo e con altre forme, pur rimanendo come traccia diventa altro.
Senza il racconto il mondo sarebbe alla mercé della globalizzazione dell’immaginario, dove un aborigeno resterebbe un cannibale e un nord coreano ancora vittima di un certo facile scontato orientalismo.
bel pezzo Serena!
Particolarmente apprezzabile il riferimento in apertura a Leopardi, poetantropologo di valore universale. La lava che si solidifica e ridiventa terra desertica sublime su cui uomini e specie altre cammineranno e profum&fioriranno è una gran bella immagine a sostegno delle virtù metaforiche del racconto..e del raccontare dentro e oltre spazio, tempo e stagioni, uman&naturali. Sensualità e annichilimento al calor rosso le sensazioni che le laviche immagini penso evocherebbero..e molti scuoterebbero. Feed back di più profonda natura *al film nn posso esprimere, nn avendol visto; **al pezzo esprimol dicendo : grandeSerenìta! ***E grandEnzo ancho pure! #inferopoli