In ambiti più strettamente musicali, il critico Simon Reynolds ha teorizzato da tempo la presunta “fine del nuovo”. I suoi ultimi scritti hanno analizzato attentamente la prassi comune tramite cui ora ci si rivolge sempre più spesso al passato della nostra memoria per trovare una vaga ispirazione e – soprattutto – prendere interi blocchi di materia musicale. Dopo Will Smith in Io sono leggenda, dobbiamo convenire che anche nei territori più squisitamente cinematografici è stata ampiamente oltrepassata ormai la famigerata linea tracciata sulla sabbia del buon gusto del remake e dell’appropriazione indebita. Nel caso di In time con Justin Timberlake per esempio, quella che è stato fatta passare come la nuova miccia accesa da Andrew Niccol contro il Sistema, alla fine rimbomba solo per l’eco con cui ricalca le vecchie intuizioni di La Fuga di Logan, forse il film che vanta più citazioni anche da Simpson e i Griffin dopo Occhi bianchi sul pianeta Terra.
Oltre che per il concetto allargato di copyright comunque, In time tradisce le aspettative soprattutto per il modo con cui riuncia di colpo a dare seguito e un minimo di continuità agli interessanti presupposti dell’idea di partenza iniziale. In una specie di presente alternativo nemmeno troppo apocalittico, infatti, Niccol (The Truman Show) immagina che l’umanità ha sconfitto l’invecchiamento riuscendo a mantenere l’aspetto esteriore di tutti a quello che si dimostra all’età di 25 anni.
Dopo questa soglia però ognuno può prolungare il proprio tempo a disposizione solo comprandoselo, e il fatto che il mondo sia diviso tra una massa di precari costretti a lavorare come schiavi solo per guadagnarsi un giorno in più e pochi ricchi rinchiusi in un paradiso di ozio e product placement ha aperto anche alcune preoccupanti chiavi di interpretazione legate addirittura al materialismo storico (Il Fatto Quotidiano). Ok, nel film il male assoluto sono le banche, ma una volta appreso l’inganno capitalista, il protagonista Salas-Timberlake più che dar voce ad una coscienza di classe collettiva si trasforma in realtà in una specie di Captain America-rapinatore di tempo in compagnia della bella Amanda Seyfried, figlia di Philippe Weis il cattivone ricchissimo di oltre 7000 anni. L’incontro tra i due sancisce la fine degli sviluppi del plot di fantascienza e dà il via alla parte del film in cui la coppia comincia a fuggire fino all’ultimo respiro, e basta.
Alcuni spunti dei mini dialoghi tra Timberlake e Seyfried rasentano uno pseudo trash involontario di altissimi livelli, anche per lo sguardo profondo, ma monocorde della protagonista di Cappuccetto Rosso Sangue che sembra essere sempre sul punto di una copula millenaristica. Sinceramente, a suo tempo non la apprezzammo nemmeno in V per Vendetta. Quel film poi divenne una sorta di manifesto di tutto il movimento di Occupy Wall Street e non solo. Non sappiamo se In time può essere destinato a un cammino simile. Più che ad un’apertura di Hollywood al precariato però con questo film abbiamo l’idea che gli Studios abbiano voluto al contrario vendere il problema del lavoro a termine proprio come un prodotto vero e proprio a parte. Alcune scene in cui tutti gli attori avevano rigorosamente venticinque anni del resto ci hanno dato la paurosa sensazione di trovarci davvero davanti ad uno spot per iphone. La spia rossa nel palmo della nostra mano si è accesa prima della fine del film.