Riteniamo che Pater familias di Francesco Patierno rientri in una categoria di pellicole lontane dalle convenzioni televisive e dall’ufficialità del linguaggio che ci siamo abituati a sopportare. Ci sembra che il suo autore faccia parte di un nutrito gruppo di giovani cineasti italiani capaci di esprimersi con un cinema personale ed utile. Abbiamo deciso di incontrarlo per dibattere con lui del suo lavoro e del cinema italiano in generale. Gli abbiamo chiesto come si affronta, oggi in Italia, questo mestiere e Patierno ci ha fornito alcune interessanti valutazioni personali…
In questo momento, e già da molto tempo ormai, non esiste nel nostro paese un’industria cinematografica. Chi si trova ad esordire in questa realtà, il più delle volte deve fare praticamente tutto da sé: il regista è costretto ad inventarsi una serie di passaggi produttivi che fanno perdere un sacco di energia e indeboliscono il film in partenza…
Quindi ogni volta è come se si dovesse ricominciare da capo…
Sì, anche se l’esperienza di un primo film realizzato tra mille difficoltà è una lezione indimenticabile. Si impara molto anche dai lavori di altri esordienti, perché un bel film nato da una forte voglia di comunicare ha sempre qualcosa da insegnare. A volte riesci a scoprire un nuovo sentiero, una tendenza, un modo con cui l’autore ha risolto certi problemi, stilistici o di contenuto. Nonostante siano anni bui, ritengo questo un buon momento per il nostro cinema, parlo di quello giovane. Sono convinto che la nostra cinematografia tornerà, tra non molto, ad affermarsi anche a livello internazionale. Un segno importante, per esempio, è che, ultimamente, due film italiani in concorso, a Cannes e a Berlino, sono stati quelli di Matteo Garrone e di Paolo Sorrentino. Questo è un segno molto preciso, nel senso che sono stati scelti certi autori invece che altri più conosciuti. Ho la sensazione che il giovane cinema italiano stia dando una bella spallata ad un sistema tradizionale, antico.
Credo che al cinema italiano oggi manchi un premio importante in uno di questi festival. In questo modo aumenterebbe il nostro peso all’estero e i produttori investirebbero di più nei giovani e negli esordienti…
Sembri ottimista…
Si! Mi basta confrontare gli esordi di oggi con quelli di dieci anni fa. Penso a Sorrentino, Garrone, Crialese, Marra, Costanzo, Munzi. È chiaro che poi un autore ti piace di più e un altro meno, però si tratta di esordi che esprimono una personalità notevole e che lo fanno nonostante la mancanza di una produzione “ricca”.
Quale rapporto hanno questi film con la tradizione italiana?
La tradizione cinematografica italiana è forte e naturalmente continua a pesare. Il Neorealismo è un riferimento eterno ma anche un film come Otto e mezzo, secondo me il capolavoro assoluto della storia del cinema, è un punto di riferimento universale: un film in cui c’è tutto…
Però, negli autori e nei film che tu hai citato, il Neorealismo sembra esercitare una forte influenza, in particolare rosselliniana. C’è molta periferia e vengono impiegati attori non professionisti. Inoltre sono film che sembrano quasi dei documentari…
Per alcuni è vero, per altri meno. Io ritengo che Garrone e Sorrentino siano i più interessanti dell’ultimo cinema. Di Garrone ho amato molto Primo Amore perché non era semplice, dopo il successo de L’imbalsamatore, fare un film così diverso nello stile e nel segno. Lui l’ha fatto rischiando di perdere parte del suo pubblico e in effetti i riscontri non sono stati omogenei: il suo lavoro è stato per metà esaltato e per metà stroncato. Ma è un film che secondo me rappresenta una seria evoluzione. Garrone, è vero, lavora con non-attori, ma è come se usasse la tecnica neorealista per arrivare a un mondo tutto suo… Discorso diverso per Sorrentino, di cui ho ammirato L’uomo in più: lui ha uno stile diverso da tutti, sa fare film grotteschi che sono difficilissimi da governare; in più, è napoletano e fare un film interessante su Napoli non è mai semplice, perché questa città è un luogo molto battuto e fortemente a rischio di luogo comune. Al contrario, ho riscontrato una certa maniera in Le conseguenze dell’amore… tornando al neorealismo, credo che una caratteristica comune a noi tutti è la tendenza a detestare la finzione, intesa come sterile ripetizione di convenzioni e luoghi comuni che esclude l’esplorazione della realtà intesa come mondo in evoluzione. Questo fa crescere la rabbia verso un certo cinema e ci fa assumere un atteggiamento di tipo neorealista.
Però a Venezia è accaduto il contrario di ciò che stai dicendo, nel senso che all’ultima edizione è stato scelto il cinema dell’estabilishment, quello di Avati, di Faenza, della Comencini..
Si, però a Venezia c’era anche Texas, di Fausto Paravidino, che a me è piaciuto. L’ho trovato molto vicino a certa drammaturgia americana. Sarà che c’ero andato senza aspettarmi nulla, ma in quel film ho riscontrato molta sincerità. Mi è sembrato ci fosse la voglia di raccontare il mondo sommerso della periferia piemontese. Texas mi ha lasciato molto.
E tu come lavori?
Diciamo che tengo molto in considerazione l’espressione corporea e, di conseguenza, la scelta di attori “corporei”. Per esempio la scena di Pater familias in cui il prete attende l’arrivo di Matteo è una situazione sulla quale ho speso un sacco di tempo. Non volevo che venisse fuori un’attesa convenzionale e siccome sono molto appassionato di fotografie, ne ho trovata una in cui un uomo fumava una sigaretta con un piede appoggiato ad un’impalcatura di ferro: quel tipo di attesa mi piaceva molto. Nello stesso tempo, non sono uno che teorizza molto: la mia è sempre una ricerca molto istintiva. Per le scene di lotta, devo dire, di ricerca ce n’è stata molto poca: i miei attori facevano a botte sul serio… Molto spesso le scene di lotta nei film sono assolutamente lontane dalla realtà e a me non piacciono. Sono ossessionato dal reale perché penso che sia emotivamente molto più potente di ogni fantasia. Se vedi un film triste o violento ci rimani male, ma è una sofferenza che rischia di rimanere in superficie perché la violenza rappresentata, e spesso esibita, nella maggior parte dei casi è una caricatura o una stilizzazione della realtà. Credo che i primi venti minuti di Salvate il soldato R
yan rappresentino, in questo senso, uno dei più grandi esempi di realismo al cinema. Ti danno l’idea di trovarti veramente nel mezzo di una battaglia e sfido qualsiasi spettatore a desiderare di trovarsi dentro il film in quel momento. Quelle scene ti trasmettono sul serio l’orrore della guerra. In molti film, invece, le scene di violenza e di morte finiscono per suscitare ammirazione estetica.
Nei film di Scorsese che tipo di violenza di respira?
Amo Scorsese, però a volte la sua è una violenza glamour. Una violenza realizzata magnificamente ma al suo interno c’è qualcosa che ti piace. Nella realtà questo non accade perché vedere in strada una persona che prende a pugni un’altra è un’esperienza terrificante e basta.
In Pater familias c’è molta violenza, però il modo in cui tu la racconti è molto lontano dall’estetizzazione. Il film non ti impressiona visivamente ma sa farti stare molto male.
Quando ci si trova sulla scena di un incidente col morto, quasi mai si riesce a distinguere il cadavere, si vede soltanto il lenzuolo che lo ricopre. Paradossalmente questo rende la scena ancora più terribile. Per questo preferisco non soffermarmi troppo sui dettagli e tendo sempre ad essere molto discreto. Cerco di dare una collocazione periferica ai personaggi e di costruire molto di stomaco le inquadrature. Opto per un linguaggio volutamente sgrammaticato e mi piace montare con passaggi che vanno avanti e indietro nel tempo. Il fatto di fermarmi un attimo prima che la scena diventi cruenta nasce dal tentativo di rendere la violenza per quello che è, e per farlo non mi serve far vedere un cranio che si sfonda.
Quando hai deciso di fare il regista cinematografico?
Ho iniziato disegnando fumetti. Un giorno ho visto Bianca di Nanni Moretti, e ne sono stato folgorato. Avevo 17 anni. Quel film era stato fatto da una persona che aveva un disperato bisogno di esprimersi. Mi ha insegnato che per farlo al meglio devi cercare il linguaggio che più ti appartiene… dare emozioni con un film significa compiere un percorso assolutamente personale e offrirti alle persone nella tua unicità. Un altro film decisivo fu, per me, Blade runner di Ridley Scott, soprattutto per l’uso particolare del teleobiettivo. Più in generale ho sempre ammirato quei registi inglesi che venivano dalla pubblicità e che tenevano in grande considerazione l’aspetto fotografico. Prima di girare Pater familias avevo paura che tutti i modelli che avevo in testa mi potessero condurre ad una generale emulazione. Per fortuna, lo dico con soddisfazione, non sono caduto in questa trappola e nel film sono venute fuori un sacco di cose che erano dentro di me.
Quali sono le motivazioni profonde che ti hanno spinto a realizzare un film come Pater familias, tutto centrato su storie di ordinaria violenza in un sobborgo napoletano?
Da un trafiletto su “Il Mattino” appresi che era uscito un libro: Pater familias, appunto, di Massimo Cacciapuoti. Non so esattamente per quale motivo andai immediatamente a comprarlo ma ricordo che lo trovai, aldilà del suo realismo, un testo splendidamente imperfetto. Mi resi conto che l’autore aveva raccontato un’esperienza autentica. Benché raccontasse di un ambiente sociale lontano da quello borghese dove sono cresciuto, anch’io mi sono sentito coinvolto in prima persona. La capacità di comunicazione che ho avuto con quell’ambiente è stata immediata, e il perché di questa sintonia bisognerebbe chiederlo ad uno psicanalista. Mi è stato chiaro da subito che non volevo raccontare qualcosa di pittoresco, di tendenza, o una mera storia di cronaca. Da questo film è partito un filo collegato a certe scelte che ho fatto dopo.
Il nesso tra le classi sociali, il tratto universale che le accomuna, potrebb’essere la violenza all’interno della famiglia…
Forse è questo il punto… Io sono sempre stato circondato da persone che sembravano star bene, ma ad un certo punto ho iniziato a scoprire che molte cose non mi tornavano , e da qui è partito tutto. Forse per questo ho traslato l’universalità del conflitto familiare in un contesto estremo come quello della periferia di Napoli: quell’ambiente sociale rappresenta il nervo più scoperto di una situazione dovunque complessa. Ho pensato che se qualcuno viene a raccontarti una storia simile alla tua, tu puoi costruire intorno a te dei muri che non ti fanno percepire nulla. Se invece assisti ad una storia lontana dal tuo mondo non ti crei nessuna schermatura e ti ritrovi intrappolato. La prova di ciò l’ho avuta da quattro o cinque genitori dell’alta borghesia che mi hanno confessato quanto il film li abbia fortemente toccati nell’intimo.
Forse Matteo, il protagonista, è il personaggio che più si avvicina a te…
Del libro è rimasto il 40%, tutto il resto è mio. Io sono entrato nel territorio di Massimo Cacciapuoti, autore del libro e mio amico, e me lo sono preso. Lui adesso ha fatto lo stesso con il mio: il suo terzo libro è ambientato nel mondo della borghesia napoletana. Si intitola L’abito della sposa. Per quanto riguarda il protagonista penso sia la figura più autobiografica del film. Una cosa che inconsciamente viene a galla man mano che va avanti la storia…
Quale è stata la strada del film da Berlino in poi?
A Berlino è stato indimenticabile. Il film fu amatissimo dai selezionatori i quali, in seguito, mi dissero che avevano deciso di prenderlo prima ancora che iniziassero i titoli di coda… Il film aprì la sua sezione ed andò talmente bene che le altre proiezioni fecero il tutto esaurito. Di sorprese negative non ne ho avute, considerando che stiamo parlando di un film costato trecento milioni di vecchie lire e che è uscito praticamente senza pubblicità. Da lì ha preso una strada sua che lo fa andare tutt’ora in giro e, devo dire, sempre con buoni esiti. Naturalmente grazie a questo film ho fatto alcune considerazioni valide per quello che sarà il secondo: la prima è che un film anche se d’autore, deve comunque prestare attenzione al mercato: Scorsese è un valido esempio in questo senso. Purtroppo non si possono fare film che non incassano, perché un film costa un sacco di soldi. La seconda considerazione è che oltre a realizzare un film bello bisogna fare un prodotto di cui si parli tantissimo. Bisogna indurre lo spettatore a scegliere il tuo film in mezzo ad altri venti e per far questo bisogna trovare degli ami. Uno può essere quello dell’attore di
richiamo, naturalmente collocato in una storia importante e di spessore. Il mio desiderio è raccontare una storia assolutamente mia e cercare di farlo coinvolgendo più pubblico possibile. Anche i meccanismi del film non devono essere troppo estremi, complicati. Sono convinto infatti che la complessità può essere resa anche con la semplicità. Pater familas non è privo di elementi che turbano. Non voglio rinnegarmi ma cercare di ammorbidire gli spigoli. La mia violenza non mostrata, ad esempio, è un elemento eccessivamente disturbante.
Nel novecento il cinema ha avuto indubbiamente un ruolo centrale. Adesso le cose stanno cambiando, che ne pensi?
Mi è capitato di leggere un articolo in cui si diceva che il futuro del cinema era sul telefonino. Mi sono messo paura. Poi per fortuna ne ho letto un altro di segno contrario, che mi ha tranquillizzato. È innegabile che la televisione abbia quasi ammazzato il cinema; è riuscita a cambiare la percezione dell’immagine dello spettatore. Infatti molti film italiani che oggi hanno successo hanno, a mio avviso, un format che si avvicina molto a quello televisivo: sembrano più sceneggiati che film… Però proprio per questo il cinema, quello buono, ha una potenza pazzesca sull’immaginario collettivo. La tv ha il successo facile ma lascia il tempo che trova: non lascia alcun segno. Il film potente ti rimane per tutta la vita. Da questo contrasto il cinema può avere grandi vantaggi.
In che rapporto sono Pater familias e La città perfetta, il documentario sulla Corea e sulla sua cinematografia che hai realizzato con Luca Cambi per la Rai (trasmesso il 14 dicembre 2005)?
Quando ho visto In the Mood for Love sono rimasto fulminato. Soprattutto da un punto di vista formale: mi sono ritrovato in quel modo di vedere e sentire le immagini. La prima volta che l’ho visto non ho capito molto della trama ma tutto il resto mi ha sconvolto. In seguito l’ho rivisto altre dieci volte. Da lì ho scoperto i registi asiatici e in particolare i coreani, soprattutto Park Chan Wook. Mi sono accorto della loro tendenza a raccontare storie che saltano dal passato al futuro tenendosi strettamente legati al presente. Apprezzo i loro schemi complessi e non convenzionali. Ricordo che prima che il mio film fosse acquistato dall’ “Istituto Luce” organizzammo una proiezione con Medusa. Mi dissero che era poco adatto a loro ma che sembrava una pellicola orientale. Si riferivano al montaggio emozionale, non narrativo, e all’uso di simboli che fornivano imput emotivi che solamente dopo diventavano logici.
Com’è stato prodotto Pater familias? E com’è andata al botteghino?
Nel migliore dei modi: il produttore si era innamorato della sceneggiatura e di un corto che avevo fatto; quindi ha messo i soldi di tasca sua senza aspettare i finanziamenti. Non ci ha guadagnato soldi ma il film è costato talmente poco che non si può parlare di un film in perdita. Inoltre la considerazione ottenuta ha dato lustro a tutti quelli che ci hanno creduto e scommesso. Proprio ora ha ottenuto il premio di qualità (500.000 euro) e qualche soldo l’ho finalmente visto anch’io. Pater familias l’ho realizzato guadagnandomi da vivere con la pubblicità. Questo è un altro motivo per cui parlavo prima dell’importanza del mercato. C’è chi si guadagna da vivere solo con i film per il cinema, e diventa per ciò più esposto ai compromessi o alla necessità materiale di realizzare subito qualcosa. Io posso permettermi di aspettare e di scegliere con più cautela, perché il mio lavoro è un altro…
Hai progetti cinematografici per il futuro?
Ho appena firmato un contratto per fare tre film, ma non posso dirvi di più. Si tratta di una produzione importante…
Qual è il tuo rapporto con la critica?
Ottimo: con il mio film ha sostituito la pubblicità e l’ha fatto camminare. Credo che la critica sia ancora capace di muoversi di fronte a un film nel quale crede. Quando un film suscita passione, la critica si esprime con decisione, riacquista il coraggio di schierarsi anche se deve tenere conto della crescente importanza del gossip e delle condizioni imposte dal giornale. Il critico deve essere abile a servire il suo giornale cercandosi un suo spazio personale. Per quanto mi riguarda ho letto cose sul mio film dalle quali ho imparato molto. So che il marcio esiste ma sono uno che tende a lamentarsi poco e penso che ci siano critici molto capaci nel loro mestiere. Credo che la cosa difficile adesso, sarà quella di ripartire da zero con il secondo film. Forse è un bene che sia passato un po’ di tempo…