Non ho potuto intervistare Alice Rohrwacher di persona durante la sua permanenza a Cannes (il suo film è stato presentato alla Quinzaine), la nostra conversazione ha avuto luogo per telefono ed è stata punteggiata da frequenti problemi di connessione; nonostante le indubbie difficoltà tecniche la regista  si è prestata molto simpaticamente e con una grande disponibilità al nostro complicato esercizio di comunicazione.

Corpo Celeste è il titolo di un libro di Anna Maria Ortese, in che modo ti ha ispirato questo testo?

Più che una vera e propria ispirazione il libro della Ortese mi ha fornito uno spunto  importante nel momento in cui dovevo riuscire a capire quale sarebbe stato il percorso di Marta; mi sarebbe piaciuto che Marta non andasse troppo lontano e che alla fine tornasse con i piedi per terra.

Nel libro c’é una descrizione della terra come corpo celeste; in quest’ottica la ricerca di un sovra-mondo, di uno spazio al di là della realtà, inizia a partire dalla terra stessa.

Ho scelto come titolo del mio film Corpo celeste perché quest’espressione rimanda al cielo ma é legata anche alla presenza della terra. Corpo e celeste erano due parole che davano questa duplice direzione attraverso il mondo.

Come si é venuta a strutturare la linea narrativa del film? 

Corpo celeste non si è costruito intorno ad una trama preesistente che si sarebbe poi dovuta ambientare in un certo contesto. La genesi del film è stata diversa: io e il produttore, con il quale ho strettamente collaborato in questo processo, abbiamo in primo luogo deciso di lavorare liberamente sulla storia di una bambina.

Ci siamo domandati cosa sarebbe valso la pena di raccontare; dopo molti scambi d’idee alla fine siamo giunti al tema della parrocchia e della chiesa.

A me questo soggetto interessava particolarmente perché ho studiato storia delle religioni all’università, ho letto molto anche Pavel Florensky che considero uno dei miei grandi maestri. Di fatto sapevo molte cose sul passato delle religioni ma non sapevo quasi niente sul presente concreto che sta vivendo la chiesa.

La chiesa era per me un luogo privo di ricordi perché non ho avuto un’educazione cattolica; prima di iniziare il film ero completamente estranea a questo mondo, non avevo in mente né immagini negative, né immagini positive ma proprio questo mi ha dato una grande libertà.

L’obiettivo non era tanto quello di focalizzare la nostra attenzione sulla Chiesa in sé come istituzione ma quello di raccontare, attraverso una chiesa, un’epoca e un luogo; quella del film é infatti una parrocchia smarrita, completamente abbandonata a se stessa dentro una comunità  allo sbando. Più che una critica alla Chiesa, il film è da intendersi come una critica alla società, una società che mischia tutto: la Chiesa, il tessuto sociale, la famiglia.

Perché hai scelto di ambientare questa storia in Calabria?

Sono partita proprio dalla Calabria perché è un luogo che conosco molto bene per motivi personali, un luogo che amo e odio allo stesso tempo, in cui vedo delle bellezze incredibili ma anche delle bruttezze. Mi era sempre piaciuta l’idea di lavorare lì. Abbiamo poi scelto di filmare la Calabria nella sua dimensione invernale perché mi sembrava opportuno uscire dal luogo comune sul sud Italia che l’associa regolarmente al sole o alla mafia. L’inverno è molto presente anche da quelle parti ed è molto bello, secondo me.

 

 Il tuo film è dominato dal punto di vista di Marta tanto a un livello narrativo quanto ad un livello cinematografico….

Nel film ho scelto, in un certo senso, tre guide; in primo luogo Marta, che è quella più vicina a me, poi Santa, e infine Don Mario con un progressivo allontanamento, se così si può dire, dal mio punto di vista personale.

La storia é derivata da un lungo studio della realtà locale; per riuscire a raccontarla ci siamo serviti della vicenda di una bambina che torna a vivere lì.

Lo sguardo di Marta è, in un certo senso, una sorta di intermediario; è uno sguardo non localizzabile che viene da un altro luogo e cerca di comprendere questa società.

Mi serviva uno sguardo un po’ estraneo; in quest’ottica il fatto che la direttrice della fotografia, Hélène Louvart, fosse francese è stata, a mio avviso, una scelta giusta.

Ho cercato poi di non sottolineare troppo le cose in modo meramente descrittivo ma di farle passare attraverso l’azione, attraverso i corpi.

 

vmnmmDegli aspetti dal gusto documentario nel film si vengono a fondere in modo molto naturale con il resto della vicenda come, ad esempio, una scena molto commovente, in cui un gruppo di donne anziane viene filmato dall’alto mentre in un cortile fa delle prove di canto ecclesiastico.

In realtà questa scena, come molte altre ancora, non sono degli estratti documentari ma sono derivate dalla realtà, ricostruite e riprodotte in base all’osservazione. Queste donne, per esempio, io le vedevo sempre dalla mia finestra quando ero ragazzina, mi sembravano perse nel cemento, mi facevano tanta tenerezza. Per questa ragione ho voluto che anche Marta le vedesse.

 

Al film partecipano degli attori conosciuti come Salvatore Cantalupo nel ruolo di Don Mario e poi dei non professionisti come la giovane, bravissima Yile Vianello nel ruolo di Marta e la straordinaria Pasqualina Scuncia nel ruolo di Santa. Come hai lavorato con i tuoi interpreti?

Abbiamo avuto molta fortuna perché tutti gli attori, sia i professionisti che i non professionisti, sono stati molto generosi.

Quello con Pasqualina è stato un incontro particolarmente felice; di fatto, io la conoscevo già da tempo perché abitava vicino a casa mia.  Pasqualina aveva la giusta distanza rispetto al suo personaggio perché non era né una vera catechista, né una vera attrice; una vera catechista avrebbe certamente emesso dei giudizi di valore sul suo ruolo, un’attrice avrebbe probabilmente trasformato il personaggio in una macchietta.

Pur non essendo direttamente implicata nelle attività della chiesa, Pasqualina respirava quell’aria tutti i giorni e quindi sapeva bene di che cosa parlavamo.

In realtà tutti gli attori avevano, in un certo senso, un legame personale con i propri personaggi: Pasqualina perché le ‘donne sante’ le conosce benissimo, Yile dal canto suo perché, come Marta, era la prima volta che arrivava in una grande città, visto che ha sempre abitato in una comunità autosufficiente in alta montagna. Questa circostanza, pur non avendo a che fare direttamente con la biografia di Ma
rta, è in stretta relazione con il suo percorso interiore.

Nel film ci sono delle parti d’improvvisazione, oppure, al contrario, avete seguito il copione alla lettera?

Corpo celeste è un film con una sceneggiatura molto precisa però, chiaramente, alcune cose sono cambiate nel momento in cui le facevamo. Penso che questa sia stata la vera bravura del cast: riuscire a rendere viva e reale una storia che era scritta.

 

Quale è stata la maggiore difficoltà che hai dovuto affrontare nel corso della realizzazione del film?

In generale siamo stati molto fortunati; abbiamo avuto dei tempi molto brevi per effettuare il rodaggio, come in genere succede per le opere prime, però, nonostante ciò, abbiamo potuto portare a termine il nostro progetto.

Forse la nostra difficoltà più grande è stata proprio quella di dovere arginare l’arrivo dell’estate! (ride). Abbiamo iniziato a girare durante l’ultima parte dell’inverno però, verso la fine delle riprese, la stagione si è messa a cambiare nel giro di poche settimane così velocemente che eravamo molto preoccupati.

 

A parte il fatto di essere stato selezionato alla Quinzaine  des Réalisateurs, quali altre soddisfazioni ti ha dato il film?

La maggiore soddisfazione per me è stata quella di condividere con tutte le persone con le quali ho lavorato un’esperienza molto vera, molto forte che ci ha legato profondamente. Penso che ogni esperienza capace di saldare, unire le persone abbia un grande valore in sé.

All’inizio del progetto siamo partiti con un gruppo eterogeneo d’individui che stavano lì perché dovevano lavorare insieme, alla fine però il gruppo lavorava per qualcosa in cui credeva veramente. Per me è stata proprio una grande soddisfazione sentire gli elettricisti o il macchinista dire: “ Mah, io non me lo aspettavo di fare un’esperienza così intensa!” Si sono fidati di me ed è stato meraviglioso!

 

Il rodaggio ha creato dunque una comunità, cosa che mi sembra molto significativa dato il soggetto del film stesso….

Si, secondo me sì! (ride)

 

Cosa ti auguri per il tuo futuro artistico?

Mi auguro di avere la fortuna di potere continuare a creare dei progetti in cui credo e vivere, appunto, delle esperienze autentiche.

One Reply to “Corpo celeste, intervista ad Alice Rohrwacher”

  1. Ho apprezzato la regista Alice Rohrwacher come grande cantante di ballate popolari a Pasquetta 2013 in un casale della campagna Montefiasconese….sublime!

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