di Alessia Brandoni e Fabrizio Croce/
1] Tuo padre ha iniziato come sceneggiatore e tra i film che ha scritto , tra quelli che lui stesso ricordava con più piacere, c’è Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, l’osservazione lucida e amara dell’esistenza di una ragazza di provincia alla prese con lo spietato mondo dello spettacolo nel pieno dell’apparente benessere del boom economico. Quanto credi che quell’esperienza abbia influenzato la scrittura/rappresentazione dei suoi personaggi femminili, pensando anche al fil rouge del corpo attoriale di Stefania Sandrelli?
Moltissimo. In misura determinante direi. La collaborazione stretta e continuativa che mio padre ha avuto con Antonio Pietrangeli, per il quale in coppia con Ruggero Maccari ha scritto la maggior parte dei suoi film, ha inciso moltissimo sulla sua formazione di giovane autore. Negli anni ’50 Ettore era un ventenne brillante e intraprendente, che aveva all’attivo già un passato di umorista nelle riviste satiriche dell’epoca, dove si era affacciato da fan sfegatato a chiedere di collaborare alla tenera età di 16 anni. E subito accolto, promettente mascotte. In quelle redazioni ridanciane conobbe tutti i suoi maestri che sarebbero diventati poi suoi grandi amici: da Maccari, ad Age e Scarpelli, a Steno, a Metz e Marchesi, i due prolifici sceneggiatori dei comici dell’epoca (Totò, Macario, Tino Scotti, Carlo Dapporto), che assoldando quel ragazzino coi pantaloni corti come “negro”, in gergo “collaboratore anonimo”, lo instradarono al mestiere più specifico dello sceneggiatore. Tanto che nel 1953 Steno lo chiamò con Maccari a scrivere per lui Un americano a Roma, l’esordio – finalmente firmante! – di mio padre, a soli 22 anni. La collaborazione con Stefania Sandrelli è solo l’elemento più nitido che li accomuna, ma la riconoscenza che mio padre ha sempre avuto verso Pietrangeli – anche dichiarata – concerneva lo sguardo, l’attenzione, l’empatia verso il mondo femminile e le sue problematiche, in un’Italia feroce, patriarcale e arretrata… Per questo, quando Gassman lo obbligò l’anno dopo ad esordire alla regia con Se permettete parliamo di donne, un film comico a episodi sui luoghi comuni del maschio latino che Ettore e Ruggero avevano scritto per un altro regista, noi femminucce di casa Scola non fummo tanto contente, dato che la poesia di quei film da lui sceneggiati era molto lontana. Profondità e lirismo invece, dei film scritti con Pietrangeli, che il giovane Scola aveva acquisito e troverà presto nella sua filmografia.
2] Particolarmente negli anni ’70, il cinema di tuo padre ha contribuito a ridefinire il concetto di commedia all’italiana, a cominciare proprio da una riscrittura della sue maschere più emblematiche: tra tutti, Alberto Sordi ne La più bella serata della mia vita e Nino Manfredi in Brutti, sporchi e cattivi. Secondo te com’è avvenuto questo passaggio e quanto ha avuto a che fare anche con i profondi cambiamenti sociali e politici di quegli anni?
Il cinema di mio padre, sia quello che ha scritto che quello che ha diretto, è sempre andato di pari passo con i cambiamenti della società, fin dagli esordi. L’impegno civile era alla base della commedia italiana – come lo era stato per i “padri” neorealisti – ed era una costante del cinema degli autori del secondo dopoguerra in poi, che si ritrovarono con il compito di ricostruire le macerie, anche culturali, del loro paese povero e martoriato dalle due guerre e dal fascismo. Dagli anni ’50, in cui raccontavano l’Italia rurale, analfabeta e maschilista; ai ’60, con l’avvento del boom economico che lungi dal superare quei limiti li trasformava a suo uso e “consumo”; e poi ai ’70, con la corruzione ormai diffusa, le rivolte operaie e giovanili, le lotte femministe e le battaglie per il diritto al lavoro; per arrivare infine agli ’80, con il fallimento degli intellettuali di sinistra e con il concetto di “famiglia” (italiana) nella sua trasformazione… L’impegno sociale era alla base del loro lavoro perché era un sentire comune e una loro priorità anche nella vita; ecco perché quel cinema rimane importante come un compendio di Storia, con un potere pari a quello della Letteratura.
3] Il cinema di Scola ha sempre avuto una propensione per la coralità, diremmo per una frammentazione e dislocazione del punto di vista principale, del protagonista per intenderci, e non solo in senso strettamente narrativo (C’eravamo tanto amati, La terrazza, La famiglia, La cena), ma anche più simbolicamente sulla scelta di personaggi marginali e confinati anche a livello spaziale (Loren e Mastroianni in Una giornata particolare). Come nasce la scelta del punto di vista da cui osservare la realtà?
Quando avevo sette o otto anni, non capivo perché mio padre ci tenesse tanto a che io leggessi le sue sceneggiature. Mi dava questi grossi copioni dattiloscritti, “all’italiana”, cioè con il foglio idealmente diviso a metà in cui nella parte sinistra veniva descritta la scena e nella destra, ben isolati, i dialoghi. Una lettura molto facile, che ovviamente potevo fare anch’io. Peccato che non mi piacesse affatto leggere e facevo un gran fatica… però quelle storie erano belle e divertenti, e mi lusingava talmente che papà ci tenesse al mio parere che lo facevo con la massima attenzione, anche perché sapevo che poi lui mi avrebbe chiesto cosa ne pensavo nello specifico, di questo o di quel dialogo, se avevo riso a quella battuta, o a quel tic…. E io, dal basso dei miei otto anni, ero sincera e naturalmente spietata. Quando un giorno, un po’ stufa, gli chiesi perché ci tenesse tanto al mio (inutile) parere, visto che iniziavo a sospettare che lo facesse unicamente per obbligarmi a leggere, lui mi rispose: “Nessun parere è inutile, Silvia! Bisogna sempre sorvegliare il punto di vista degli altri, di tutti gli altri. Quindi anche di quello di una nanetta come te”. Ecco, la sua preoccupazione principale era questa: cercare di guardare dal punto più lontano da sé per verificarne la fondatezza, da laggiù, ed essere pronti a mettersi in discussione. Penso che questo principio sia anche alla base del mettere in scena persone e personalità diverse, in modo da far nascere conflitti e quindi litigi da cui trarre spunti di riflessione su una data realtà: per i personaggi all’interno del film, ma anche per gli spettatori in sala, che così, quando tornano a casa, continuano a parlarne tra di loro. Quindi anche la scelta del punto di vista della narrazione era fatta dagli autori seguendo quella spinta lì. Far nascere un dubbio nel pubblico, piuttosto che fornirgli delle risposte.
4] I luoghi del cinema di Ettore Scola sembrano essere non solo luoghi fisici ma trasfigurati dalla memoria sentimentale dei personaggi: il cinema in Splendor, la terrazza di Una giornata particolare, la stessa carrozza itinerante de Il viaggio di Capitan Fracassa…
Ho sempre avuto l’impressione che il cinema di mio padre fosse un cinema carnale, viscerale, per quanto profondo e incisivo è il suo sguardo nelle persone. Il suo amore per gli attori e la sua dichiarata “claustrofilìa”, come amava definire la sua predilezione per i luoghi angusti in cui racchiudere le sue storie, gli permettevano, oltre alla teatralità del testo e all’unità di tempo e di luogo, di avvicinarsi ai personaggi con la macchina da presa fino a sentirne il fiato, a percepirne i palpiti, a vederne i brividi o i geloni sulla pelle. Stargli attaccato per stanarne i segreti, le emozioni più intime, nascoste tra le pieghe del loro animo. A volte sconosciute anche a loro stessi. E toccarle. Come poi succede anche a noi spettatori. Il luogo in questo caso assume un valore fondante, astratto e allo stesso tempo concreto, come nel Teatro. E questo è un elemento costante di tutti i suoi film, anche di quelli più corali e ambientati in spazi più ampi, come Ballando Ballando, o La Terrazza, o Il Mondo Nuovo.
5] Rispetto al confronto generazionale, nel rapporto di collaborazione con tuo padre, quanto questo aspetto ha inciso, se ha inciso, per quanto riguarda la sua visione della realtà?
Come accennavo sopra, con mio padre abbiamo sempre avuto un rapporto di scambio, di complicità e di confronto-scontro molto intenso. Da sempre. Cioè fin da piccolissima e poi dopo quando mi obbligava a leggere le sue sceneggiature. Ma ho avuto la fortuna di nascere femmina, di un genere diverso dal suo quindi, e questo, oltre a non far scaturire rivalità o competizioni tra di noi, ha sempre arricchito di punti di vista diversi, se non opposti, quanto andavamo scrivendo insieme. Non è stato difficile anche per le doti di scrittore e di umorista che lo caratterizzavano, e quindi l’abitudine a parlare di tutto, a ridere insieme e a prenderci in giro reciprocamente, ha fatto sì che ci intendessimo parecchio nel lavoro, anche se non sempre paladini della stessa sponda. Ma i punti di vista, come ripeteva, vanno sempre sorvegliati e tenuti in considerazione: questo faceva di quei personaggi delle persone complesse e sfaccettate, in cui era facile identificarsi e restarvi affezionati.
6] Ora entriamo più nello specifico di Una giornata particolare. Il film, del ’77, racconta la storia di due “esclusi”, due persone ai margini della Storia, confinati e paralizzati tra le mura di casa, che nell’incontro riusciranno a cambiare qualcosa di sé. Abbiamo rivisto il film in TV, durante la pandemia, e finalmente su schermo grande, nella splendida cornice del MoliseCinema, edizione 2023: una visione immensa. Il rapporto tra l’esattezza e l’inafferrabilità della storia minima (dei gesti, delle esitazioni e del desiderio) e la retorica opaca di quella nazionale, insieme alla rappresentazione della riduzione a una impotenza primaria e “familiare”, sono di una contemporaneità impressionante…
Sì, un’altra costante dei film di Scola è stata sempre l’anticipazione, la preveggenza quasi. Penso al ritratto dell’industriale di potere, esportatore di capitali all’estero, un donnaiolo qualunque che viene messo a processo e condannato a morte ne La Più Bella Serata della mia vita, che anticipava di 20 anni la figura di Berlusconi. O C’eravamo tanto amati sul fallimento della politica di sinistra e l’inizio della disillusione; o per l’appunto Una giornata particolare, che a tutt’oggi, anno 2023 d.C., ci fa soffrire delle stesse ferite, e anzi scopriamo che la società ne ha inventate di nuove, da infliggere alle nuove minoranze emergenti.
7] Il piano sequenza iniziale è magistrale: l’entrata in scena della mdp dalla finestra, Antonietta in cucina e il lampadario che ondeggia sopra la sua testa come prima di una tempesta, il separé, le lenzuola che scoprono i corpi dei bambini, il muro interno che occlude lo sguardo, i risvegli, gli specchi… E poco dopo i preparativi per un’altra messa in scena, per un’altra giornata che comincia: la parata fascista per Hitler…
Alla base di quella sequenza e di tutto il film c’è proprio l’assunto di voler raccontare quanto la Storia ufficiale penetri, permei e venga subita dalla piccola gente e da tutti quei non protagonisti che vivono nell’ombra; per lo più poveracci. Persone comuni che in quel dato momento storico si trovano a vivere quelle condizioni, quelle brutture. Che possono essere la mancanza di soldi o del lavoro, o quella di vivere sotto la dittatura nazi-fascista ed essere deportati e isolati dal mondo civile per semplice e banale omofobia. E se oggi possiamo dare un nome a cose che prima non si potevano neppure pronunciare, è forse anche grazie a questo tipo di film: entrando con la cinepresa dentro le case, nelle cucine e tra le lenzuola dei loro letti, l’odore di “sangue e merda” che respiravano Gabriele e Antonietta in quell’epoca buia riusciamo a sentirlo perfino noi in sala, ancora oggi.
9] Il film si svolge in una unità di tempo e di luogo. Una scelta forte. Uno “specifico filmico” (si sta citando l’indimenticabile Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati) rigoroso…
E’ il discorso che facevamo prima sul suo amore per la teatralità delle situazioni e la complessità dell’animo umano. Uno ‘”specifico filmico”, il suo, che vede personaggi da raccontare, sviscerare, prendere per il naso, ma sempre osservandoli e rappresentandoli nella loro piena verità. Anche se solo in questo frammento della loro esistenza, racchiuso nello spazio del film.
Aggiungiamo che davvero sorprendente, nel rivedere oggi Una giornata particolare, ci pare anche il modo con cui Scola ha utilizzato il materiale d’archivio (immagini e audio di repertorio del Luce), quello che correntemente chiamiamo found footage (ma anche in C’eravamo tanto amati e La terrazza ci sono immagini di repertorio o estratti da altri film). Un anticipatore, in questo senso, di una tendenza contemporanea tra le più feconde e interessanti, e che in Una giornata particolare assolve forse a una duplice funzione: da una parte gli serve per esprimere dubbi rispetto all’oggettività dei fatti trasmessa dal cinegiornale, dall’altra, con la radiocronaca della giornata “eccezionale” tra Mussolini, Hitler e il “popolo” a fare da polo roboante (sia con l’audio in campo sia con l’immagine assordante della parata in fuori campo, visto che il film è girato tutto in due interni) a quella “particolare” tra Antonietta e Gabriele, gli è utile per costruire un clima di straniamento tra i due protagonisti (il film è anche uno struggente mélo) e la realtà violenta e aberrante che sta accadendo fuori nello stesso momento. Loren e Mastroianni, poi, sono quasi una mise en abyme, una storia nella storia: Scola prende le due stelle più smaglianti del cinema internazionale e le confina in un tempo punitivo e in uno spazio coercitivo per parlarci di condizione femminile e di omosessualità. Come dare, insomma, nuova forma al mondo…