El Sicario, Room 614 di Giafranco Rosi, sconvolgente monologo di un killer pentito del narcotraffico messicano, ha tenuto per ben ottanta minuti l’enorme sala del Gartenbaukino alla Viennale con il fiato sospeso. Presentato in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, nella Sezione Orizzonti, e premiato dalla giuria Fipresci, El Sicario, Room 614, ha in seguito ottenuto il grande premio della città di Lisbona, somma ricompensa del festival Doc Lisboa. Ho avuto il piacere di moderare l’incontro di Gianfranco Rosi con il pubblico viennese alla fine della proiezione del film. Il testo che segue è un resoconto di questo dibattito.

Com’è nato questo progetto?

Il desiderio e la volontà di fare questo film é nato dalla lettura di un articolo di Charles Bowden pubblicato nel 2009 su “Harpers Magazine” in cui intervistava il protagonista del film. Per arrivare a scriverlo Charles Bowden ha impiegato vent’anni della sua vita: ha vissuto a lungo in Arizona, ha lavorato nella zona di frontiera fra Stati Uniti e Messico scrivendo libri, articoli e conosce questo territorio come le sue tasche. Per Charles Bowden quest’articolo é stato, direi, il compimento di un percorso di anni ed anni di lavoro dedicato a comprendere cosa succede da quelle parti. Quando Charles ha deciso di terminare questo tipo di investigazione – era ormai stanco e non voleva più occuparsi di una realtà che non offre alcuna via di scampo a chi ne fa parte – ha preso la decisione di intervistare un sicario ed ha iniziato a cercarne uno. Il fatto che avesse tante conoscenze e contatti nell’ambiente gli ha permesso di arrivare fino ad uno degli uomini più importanti del mestiere. Quando ha appreso che quest’uomo era latitante ha voluto intervistarlo ed è riuscito a farlo. Il 25 maggio del 2009, quando è stato pubblicato il suo articolo su “Harpers Bazar”, Charles Bowden ed io stavamo preparando un film insieme a New Orleans sulla polizia e la corruzione. Me lo ha dato da leggere ed io sono rimasto completamente sconvolto. Gli ho chiesto: “Perché ti occupi di storie così crudeli ed orribili?” Lui mi ha semplicemente risposto: “Al momento in cui ho iniziato l’articolo si parlava di tremila persone uccise dal narcotraffico negli Stati Uniti, nel frattempo questo numero é salito ufficialmente a ottomila; in Messico si parlava di venticinquemila morti adesso si parla di circa quarantamila morti ufficiali; é un fenomeno che va ben oltre la guerra dei cartelli, è quasi uno sterminio di massa…..”

Dato che Charles Bowden aveva già intervistato il sicario per Harpers Bazar é stato difficile convincerlo a testimoniare una seconda volta?

In un primo tempo avevo pensato di fare un film di finzione dove il protagonista sarebbe stato il sicario stesso. Charles Bowden lo ha contattato facendogli questa proposta, ma lui ha rifiutato categoricamente; sarebbe stato impensabile mostrare il suo volto. Qualche mese più tardi sua moglie è rimasta incinta; lui continuava ad essere latitante ed aveva disperatamente bisogno di soldi per il parto. Attraverso dei conoscenti comuni è entrato in contatto con Charles Bowden dicendosi disposto a farsi intervistare per un documentario. Charles gli ha spiegato subito che nei documentari i testimoni non vengono pagati, ma lui è riuscito a presentare la sua richiesta in modo tale da convincerci. Ci ha detto: “Io vengo pagato di solito 4000 dollari per uccidere (to shoot) un individuo, vi chiedo 4000 dollari perché voi mi filmiate (to shoot me!)” (Ndr: gioco di parole in inglese con il verbo to shoot che significa tanto girare che sparare“ I use to charge 4000 dollars to shoot people I am gone to charge you 4000 dollars for you shoot me!”)

In un certo senso questa mi è sembrata una condizione corretta: così sono partito e sono andato ad incontrarlo. In quel momento io stesso non avevo i soldi per fare il film e avevo pochissimo tempo a mia disposizione per organizzare il tutto. I produttori a cui mi ero rivolto mi avevano chiesto di che storia si sarebbe trattato; ovviamente non potevo dire loro niente di più preciso prima di girare. Per mia grande fortuna il mio amico e montatore Jacopo Quadri mi ha prestato 4000 dollari in contanti. Sono partito da solo con quei soldi in tasca e con la mia cinepresa ed ho girato il film. Questo è stato il mio primo viaggio in Messico.

Come si è svolto l’incontro con il sicario?

In un primo tempo abbiamo incontrato il sicario per metterci d’accordo sul luogo in cui avremmo effettuato le riprese: abbiamo discusso a lungo, la location era estremamente importante per lui. É stato lui a prendere la decisione di girare nella stanza di un motel perché in quel luogo si sentiva al sicuro: la stanza numero 164 è infatti molto isolata dal resto dell’edificio e si può arrivare in macchina senza essere visti. A me il posto non piaceva per niente; non avevo nessuna voglia di girare lì, ma Charles mi disse che se il sicario aveva scelto quella stanza in particolare doveva essere fondamentale per lui, per cui dovevo adattarmi. Di fatto questa era una stanza che il sicario aveva utilizzato in passato per nasconderci dei prigionieri e torturarli. Ho passato lì due notti aspettandolo senza riuscire a dormire un gran che, poi un giorno, alle sei del mattino, hanno bussato alla porta; era lui. Abbiamo iniziato a parlare un po’ sul come avremmo filmato l’intervista; in quell’occasione gli ho detto che avrei voluto che lui scrivesse, era l’unico modo con cui avrei potuto mostrare qualcosa di più su di lui.

In questa situazione così particolare in cosa ha consistito la tua messa in scena ?

Durante il nostro primo incontro mi ero reso conto che lui scriveva tutto il tempo mentre parlava; così ho deciso di approfittare di questa sua forma di grafomania. In questo senso l’unica cosa che ho fatto come regista è stata quella di mettergli in mano un grosso quaderno, uno di quei quaderni che uso io stesso per il mio lavoro, e un pennarello assai spesso in modo che la scrittura fosse ben visibile. Ho capito che l’unica vera forma di comunicazione con il pubblico sarebbe stata il disegno. Quando gli ho dato il grosso quaderno da disegno lui sembrava non volerlo accettare; non voleva mostrare le sue mani, pensava che attraverso di esse lo si avrebbe potuto facilmente identificare, voleva fare l’intervista con dei guanti. Ovviamente non ero d’accordo: gli ho detto che se lui avesse insistito su questo punto io avrei registrato solo il suono, senza immagine. Alla fine sono riuscito a convincerlo di girare a mani nude. Così ha iniziato a scrivere ed io l’ho incitato a scrivere tutto quello che gli veniva in mente, usando la scrittura come un riflesso, uno specchio delle sue parole. Il mio secondo intervento di messa in scena è stata la scelta del modo con cui nascondere il suo volto. Il sicario si era presentato con una specie di passamontagna ma era una cosa che faceva veramente paura; io avevo con me una rete nera che uso per camuffare a volte la mia cinepresa, gli ho chiesto di mettersela, per fortuna ha accettato. Per me all’inizio il velo nero era semplicemente un elemento estetico, in seguito mi sono reso conto che è stato molto importante per il film perché ha creato uno stato d’animo molto particolare di isolamento totale in cui lui mi poteva solo intravedere mentre lo stavo filmando.

L’idea del quaderno è stata una trovata geniale in un film dominato dalla staticità del protagonista…

Non avrei mai immaginato che il quaderno potesse diventare in seguito uno strumento narrativo così importante. Mi sono reso conto di questo soltanto in seguito mentre stavo girando; alla fine il quaderno risulta essere un elemento molto importante della struttura stessa del film ed è veramente sorprendente vedere come questo funzioni. L’uso del quaderno all’inizio mi è stato semplicemente dettato dall’intuizione e direi forse un po’ anche dalla disperazione, dal non sapere bene come fare questo film. Sul momento, quando devi prendere una decisione in pochi secondi, speri solo che sia quella giusta; in questo tipo di situazione non c’è altro da fare che seguire sempre il proprio istinto. Ovviamente ho avuto la grande fortuna che lui fosse un grafomane; il film è diventato una specie di “graphic-documentary” e le sue mani sono diventate delle mani ‘parlanti’. Si apprendono un sacco di cose sulla personalità del sicario attraverso il modo in cui muove le mani, attraverso il ritmo che dà alla scena voltando una pagina, attraverso il rumore della carta, il suono della sua respirazione. É proprio questa miriade di particolari, a prima vista secondari, che crea il film. Ci si rende conto se il film ha funzionato o meno quando si ha la chance di poterlo mostrare in un grande cinema come questo e condividerlo con la gente. Attraverso le domande e le reazioni del pubblico io stesso arrivo a capire meglio il mio lavoro che, in un primo tempo, è quasi un puro frutto dell’istinto.

Cosa aggiunge il film all’articolo di Charles Bowden?

In fase di preparazione avevo pensato di arricchire la testimonianza del sicario attraverso quella di altri quattro personaggi, ma alla fine la storia del sicario era così forte che non potevo associarla a nessun’altra. La sola cosa che ho potuto aggiungere sono state delle immagini della città ripresa dall’alto come un immenso cimitero e le riprese di alcuni edifici, quelli che lui stesso aveva indicato essere le “case della morte”, dei luoghi usati dai narcotrafficanti per seppellirvi i cadaveri delle loro vittime. Il nostro è stato un lavoro di sottrazione; tutti i materiali che avevo filmato durante un mese e mezzo a Ciudad Juarez non li ho praticamente utilizzati se non per brevi momenti. Penso che alla fine il film funzioni al di là delle sue intenzioni.

 

Foto: Ruth Ehrmann

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