Ispirarsi a John Cassavetes sembra esser diventata sempre più una buccia di banana. Brand appetibile e suggestivo, il suo "cinema di poesia" viene spesso utilizzato per pretestuosi esercizi di stile ed esasperazioni liriche, che, per dirla con Pasolini, producono in quantità del "cattivo Cassavetes”.
Film come Hurlyburly, con uno Sean Penn in stato d'incontinenza, o Anniversary Party, con la coppia Jennifer Jason Leigh e Alan Cumming in autoreferenza permanente, fanno al caso nostro. Inutilmente verbosi e mossi, con un ritmo che, sistematico, si spezza addosso ai personaggi – che non sono facce. Una sorta di linea editoriale introiettata a dovere che recita, più o meno: ricerca della verità, istruzioni per l’uso. Ovvero come non rischiare niente.
Ci sono poi registi che usano lo stile Cassavetes per continuare il viaggio e portare magari da un’altra parte (Assayas, Jarmusch, Garrel, il primo Scorsese, Almodovar e Kechiche, tra gli altri), e quelli che invece lo utilizzano semplicemente a sproposito.
Questo Interview, del pur bravo Steve Buscemi, che indica Cassavetes come sua stella polare, ci mostra l’incontro tra un giornalista pulitzer in declino, anche fisicamente, e una giovane e bella attrice di blockbuster in ascesa (Sienna Miller, in forma "truzza" smagliante). L’occasione è un’intervista che, nemmeno girato l'angolo, si trasformerà nel solito giochino al massacro. Ma di giochino si tratta e, al dunque, non scorrerà né sangue né liquido cerebrospinale, piuttosto qualche sbadiglio (diversamente da Sleuth, ultimo film dello shakespeariano Kenneth Branagh, massacro riuscitissimo – e con regia controllata al millimetro – in cui il re si mostra, infine, nudo). Lo scambio dialettico, si fa per dire, mostra ben presto la corda, che, a forza di giri in tondo, si avviluppa intorno ai due come un hula-hoop che non segue nessuna musica. L’ossessione narcisistica dell’io invade lo schermo fin dalla prima inquadratura, e tale resta fino alla fine. I personaggi restano chiusi nei loro ruoli, le maschere non cadono mai giù, se non, magari, sotto ricatto. Non c’è contaminazione né mutamento nei punti di osservazione dei due, è solo un gioco in cui cattiveria e mancanza di scrupoli servono a ghiacciare il plot e a tener su la baracca. Entrambi sono sgradevoli e furbi, ma, e questa sembra l’unica teoria, lo spettacolo professionalizzato e senza pensieri vince su quello improvvisato e troppo intellettuale. Le emozioni manipolate al minuto dall’attrice hanno la meglio su quelle più sottili evocate nei reportage del giornalista (l'intervista, forma tipica di manipolazione in cui chi pone le domande dirige il gioco, ovviamente fallisce). Entrambe, in ogni caso, sono fasulle, poggiando su fatti minimi – resi enormi – se non inventati. Il giornalismo che conta non informa più sui fatti della realtà, sembra dire. Lo spettacolo può convincere anche gli scettici più navigati, sembra rispondere. Senonché, al dunque, non dice né l’una né l'altra cosa, terminando il gioco con una fine degna del peggior aneddoto, quello più chiuso e impermeabile al resto, al contesto.
Sbandamento formale e lassismo nella progressione narrativa, sembrano dilagare ad ogni nuova inquadratura, mentre l’ironia e lo scetticismo sembrano funzionali a giustificare la mancata assunzione di responsabilità. L’incapacità di mettersi in gioco sbiadisce, ambigua, nelle convulsioni delle immagini: tutte a mano, a voler suggerire immediatezza, improvvisazione e autenticità, quando l'acquario è invece una farsa senza giusta causa.
Cassavetes amava la vita e le persone che, agitandosi come formiche impazzite, riescono a complicarsela o, forse più semplicemente, a viverla, perché proprio il movimento è il senso, suggerito anche dal suo stile di ripresa. I suoi protagonisti, scomodi e urlanti, cambiano punto di vista, si sporcano nell’odio e nell’amore dell’altro (e dunque del sé), cercano costantemente di liberarsi dalla loro condizione di partenza e dal dolore, in una tensione che li porta talvolta a superare i perimetri disegnati per loro dal regista, quasi che gli uomini disegnati da Francis Bacon riuscissero a liberarsi dal cerchio che li opprime e determina. E’ un umanesimo, quello di Cassavetes, pieno di comprensione e di rimessa in discussione dei limiti. Ed è un cinema che si fa sempre specchio, allo stesso tempo reale e poetico, del malessere della società americana.
Il film di Buscemi, dalle apparenze mosse, è freddo, autoreferenziale e inutile: è stato solo un mucchio di spropositate chiacchiere, vero?