di Alessia Brandoni/ Jacques Doillon, nel corso della Master Class organizzata dalla 14^ edizione della Festa del Cinema di Roma, accortosi che i microfoni allestiti per l’incontro con il pubblico avevano seri problemi di amplificazione, alza la voce quel poco che basta a sciogliere le giuste rimostranze del pubblico contro un’organizzazione grottesca -la risposta è infatti tanto lieve quanto radicale: “Scusatemi, non posso parlare più forte perché lo scorso anno ho avuto un cancro alla gola. Potete venire più vicino? Qui, la prima fila è libera, e anche lì, spostiamo quel tavolino, facciamo spazio. Venite”
Si trattava di risolvere un problema, grazie alla strepitosa performance dell’ineffabile motore immobile romano, il cui epilogo quasi esemplifica il cinema di Doillon: cercare, in ogni circostanza e situazione imprevista, lo spazio per fare-insieme, il sentimento dello stare insieme. Avendo il coraggio di portare i passi dove l’estro chiama. Con buona pace dei megawat persi nella falla del grande evento.
E dunque l’incontro con il regista francese che, rimandando a una supposta presentazione, potremmo così compendiare: scoperto da Truffaut, studiato da Deleuze, amato da Garrel, affine al cinema di Cassavetes e Eustache quanto a quello di Bresson, Dreyer e Rohmer, quasi del tutto sconosciuto in Italia, che con questa retrospettiva alla Festa del cinema di Roma tenta in extremis di rimediare, Doillon -cercando un’espressione proprio a partire dal suo stile- sembra che faccia cinema con quello che si trova davanti: attori, paesaggi, luci, stanze, maglioni.
Vale a dire non mettendo mai il suo sguardo, e la sua ragione, prima di quello che già esiste. Cioè la realtà.
E il suo, chiaramente, è uno sguardo ‘forte’, insieme stilizzato e empatico, con cui esprimere la propria radicalità fino al punto di decidere di usare soltanto piani-sequenza e piani fissi o di girare soltanto con dei bambini –facendo vincere il primo premio a Cannes a una bambina di quattro anni, interprete di Ponette (1996).
Pure ad alto rischio è l’incredibile relazione affettiva che riesce a creare nello spettatore nei confronti di tipi che una cattiva coscienza diagnostica terrebbe a distanza, vedi in La drolesse (1979) –l’affetto che mette in circolo ci ha fatto amare la birichina fino alle lacrime, tanto più che la bravissima attrice è scomparsa soltanto pochi anni dopo la sua prima interpretazione, a quindici anni, e a noi è sembrato che fosse accaduto a qualcuno che si era conosciuto, e appunto amato.
La sua libertà allineata soltanto alle esigenze di una sensibilità ispirata ed estesa, che non evita le asperità dei luoghi e delle passioni (molti suoi film sono girati in una stanza, con gli attori costretti a recitare e muoversi come in un percorso a ostacoli), è anche ciò che ci consente di metterci in contatto con l’assenza e la morte, come accade in Ponette, film singolare, ostinato e puro (il cercare le parole per dire l’indicibile, della bambina, rimandano anche a una istanza sorgiva della parola), dove la morte della madre è anche il polo dell’assenza con cui la mdp si relaziona durante tutta la durata dei piani-sequenza.
Ed ecco, infine, tornando all’oggi, la spontaneità e insieme la sfrontatezza del parlare della propria malattia a partire da un problema tecnico -perché ritrovare l’’insieme’ è quello che conta.
In ciò potremmo trovare un altro carattere espressivo di Jacques Doillon, vale a dire che il suo ‘dire’ e il suo ‘fare cinema’ non soltanto dice e mostra delle cose ma al tempo stesso produce anche degli effetti sul mondo. Il suo dispositivo cinematografico, in questo senso, ha una funzione performativa. E una funzione in cui, deleuzianamente, prevale la creazione di effetti positivi, dove la realtà, cioè, viene prodotta dalla socialità e dall’insieme invece che dall’egoismo o dalla sorte di singole individualità indipendenti dagli altri. Se questo è vero, non può che cogliersi con gioia la grande vitalità del modo di fare e di girare di Doillon, la sua irriducibile speranza nel trasformare i resti di qualcosa di imprevisto che accade, mettendo sulla stessa linea decisiva cuore, mente e animosità: ché quante splendide lotte ci ha inflitto Doillon facendoci stare meglio! (tra gli altri ricordiamo l’UFO sopra la berlinale del 2013, Mes séances de lutte). “Io non sarei capace di filmare un ragazzo distrutto”, così il regista nel 1999, raccontando la sua esperienza di uditore in un tribunale dei minori durante la preparazione di Petits frères (1999).
L’entusiasmo ci ha contagiati, facendoci perdere di vista il compito iniziale, vale a dire riportare le risposte di Jacques Doillon all’interno della master class (ecco un effetto perverso del c.d. linguaggio performativo, tanto più stando al tendone freddo e fioco in cui si è tenuta). Con licenza, s’intende.
“E’ stato un privilegio fare film. Sono sempre stato un solitario, fin da ragazzino. Non ho mai appartenuto a nessuna élite sociale, culturale, politica, sindacale. Certamente venivo da una condizione più modesta di altri”
“I registi della Nouvelle Vague, nel ’58 e ’59, scrivevano sui Cahiers ed erano anche accomunati da un certo rapporto con il potere. Volevano avere potere! Ma Godard e Truffaut sono del tutto diversi. Lo si vede dalle prime inquadrature, dalle prime impronte”
“Non so mai cosa girerò. Nasce lì. Non so spiegare, piuttosto faccio. Le luci sono importanti, i costumi sono importanti, certo, ma non li scelgo mai io. Se il direttore della fotografia mi porta un maglione rosso, io giro la scena a partire da quel maglione e da quel colore. Tanto, sul set, è improvvisato. E forse molto, è anche innocente”
“Ho grande facilità nel dire ‘azione’ e molta difficoltà nel dire ‘stop’ (ride). Giro molti piani-sequenza. Con il digitale posso fare tutti i piani-sequenza che voglio, ognuno dura quanto dura una scena. Così, se l’attore rimane ‘dentro la scena’, alla fine trova l’energia e la trasmette. Non mi accontento mai del buona la prima! Magari è la diciassettesima. Dire stop quando la scena non è veramente finita è una specie di violenza. Certo, in sceneggiatura la scena sembrava terminare lì, ma poi nel corso di una ripresa, che sia la quarta o la sesta, ti accorgi che deve continuare. E allora devi continuare, suggerendo agli attori qualche gesto, qualche parola. Certo, lo si può fare solo se si ha fiducia negli attori, e se loro sono in uno stato tale di tensione da poter continuare con naturalezza”
“Lavorare sulla scena è per me costruirla durante le riprese. Non dico mai: va be’, rifacciamola. No, dico continuiamo a lavorare fino a quando questa scena funzionerà. Tante ripetizioni per arrivare a quello che voglio. Anche perché passo il tempo a dubitare di tutto” (ride)
“Non uso story-board. Quando gli attori sono fisicamente presenti il film si comincia a fare. Il film è per me un luogo minato, pericoloso, un campo aperto di sperimentazione in cui ci si chiede cosa accadrà. Dove si fanno delle cose con temerarietà, con audacia, e con una grande coscienza di quel che si può fare. Il film viene, o non viene, al momento della ripresa, e la sceneggiatura per me conta assai poco. Prima è come se non ci fosse. Magari serve a preparare uno scontro. Uno scontro con il personaggio e con l’attore. C’è sempre da parte del personaggio principale, infatti, una ricerca forte di qualcosa, portata avanti con coraggio e ostinazione. Un personaggio che di solito è una donna e che possiede una energia e un ardore che a volte sa gestire e a volte no. Non riesco a immaginare personaggi che abbiano pochi desideri, poca volontà. Mi capita di avere sempre a che fare sempre con personaggi che hanno una grande ostinazione e non vogliono mai tornare indietro”
“Forse in questo sono andato più avanti della Nouvelle Vague, vale a dire nel lavoro con gli attori. Trovo che il lavoro con gli attori, nella NV, non sia così acceso, neanche in Truffaut, che pure amo molto”
(risposta rispetto al lavoro che fa sul set con i bambini) “Ci metto tutto il tempo necessario, nel cercare il ‘bambino giusto’. Sul set occorre avere la fiducia totale che loro, i bambini, possano farcela. E magari, questo sentimento di fiducia, alla fine riesco a trasmetterglielo. Anch’io mi sento un non professionista come loro. Il punto è proprio trasmettere la fiducia. Creare un ambiente confortevole. Stare insieme, nel tempo, e stare insieme anche ai loro genitori. I bambini non capiscono il ruolo. Occorre parlar loro in maniera semplice. Nell’infanzia tutto è imprevisto, tutto è una sorpresa, ma le emozioni che provo io, cose semplici e complicate come abbandono, gelosia, paura, loro arrivano a sentirle. Noi adulti dobbiamo essere molto più attenti anche a quello che si dice, quando si sta sul set con i bambini”
“Posso parlare molto durante le riprese. Ed è un problema per la montatrice! Per esempio in Ponette parlavo di continuo, in tutti quei silenzi della bambina c’era la mia voce. Era già difficile per me stare da questa parte della cinepresa e dunque bisognava che parlassi sempre, non solo per dirle cosa fare e dove guardare ma perché si sentisse meno abbandonata”
“Non ho mai un approccio intellettualistico sul set, e neanche nella vita. Anche se questa è una frase molto intelligente “(ride).