C’è sempre qualcosa di sfuggente, d’incompiuto, che non convince fino in fondo nel cinema di Giuseppe Piccioni, come se si intuisse la volontà di intraprendere un percorso articolato, complesso, in particolare nella struttura del racconto e dei personaggi, ma alla fine questa volontà per quanto consapevole, rimanesse frenata da un linguaggio cinematografico eccessivamente controllato. Ciò che non rientra nei limiti della pulizia e della precisione dell’inquadratura o riesce ad emergere autonomamente o si perde nelle intenzioni mancate. Purtroppo anche quest’ultimo lavoro non ci libera da questa sensazione di trovarci in una terra di mezzo tra “il gesto di chi afferra e quello di chi si trattiene” citando una canzone di Daniele Silvestri, e il dispiacere stavolta è notevole perché, come spesso gli riesce con i personaggi femminili, Piccioni tratteggia un altro ritratto inconsueto di donna, un personaggio altro rispetto alle figure spesso anemiche e tirate via del nostro cinema.
La Giulia del titolo è una donna spigolosa, scostante eppure sensuale, che fa un lavoro molto fisico (istruttrice di nuoto), si esprime con un linguaggio semplice, diretto, possiede la rara qualità dell’intelligenza del cuore che le permette di affrontare la vita con coraggio, di guardarla in faccia senza sfuggirle ma al tempo stesso è affetta da un male oscuro, una lontana malinconica irrequietezza che scaturisce da un passato difficile. Ora, dopo aver visto il film, è quasi impossibile immaginare un’attrice differente da Valeria Golino per questa Giulia, fin dalla voce roca, profonda e dalla dizione non perfetta, slabbrata per arrivare a quella fisicità di una bellezza che tende a nascondersi per poi rivelarsi e poi ancora a richiudersi per chiedere e non imporre di essere cercata di nuovo.
Un punto vitale intorno a un nucleo narrativo che non regge il confronto e si spegne tra reticenze e falsi movimenti a cominciare dal protagonista maschile che, misurandosi con la Giulia della Golino, si relega al ruolo di co-protagonista fino a sfumare lentamente nell’ombra e nell’opacità. Magari era proprio questa l’intenzione di Piccioni nell’affrontare il personaggio di Guido, scrittore senza particolare vocazione, ideologicamente sulla soglia del qualunquismo, che vive stancamente il ruolo di padre e marito esattamente come la sua carriera in ascesa e che solo il contatto con Giulia scuote da un torpore umano ed esistenziale prima che intellettuale. Il problema è che al momento dell’avvicinamento fisico ed emotivo tra questi due esseri dovrebbe esserci quel salto, quel sussulto, la tensione che proviamo ogni volta che la Golino è in procinto di rivelare un frammento della sua storia o si cimenta in un’occhiata, una smorfia o un sorriso. Invece lo sguardo di Piccioni, intriso di per sé di una grazia e di un pudore incantevoli se non sempre adeguati, non è penetrante né dentro la metamorfosi di Guido né nelle aperture e negli spazi che lascia intravedere Giulia.
Il pudore di Piccioni ha peraltro un poco felice incontro con la scarsa convinzione di Valerio Mastandrea che, non amando particolarmente il suo personaggio e il mondo che rappresenta come ha dichiarato durante la conferenza stampa del film, ha scelto di rimanere su un tono espressivo atonale, mettendo sicuramente più sfumature nelle delicate scene con la figlia pre-adolescente e il suo fidanzatino più colto e maturo di lui, che ne coglie anche gli aspetti di critica sociale. Se si pensa che Guido è il punto di vista del racconto e che Giulia dovrebbe essere l’elemento travolgente e destabilizzante, il sentimento di incertezza e a tratti di asetticità, di distacco che la performance di Mastandrea imprime all’andatura della narrazione crea una dissonanza, uno scollamento dalla regia che abbandona lo scrittore nel suo stato di enigma e di ambiguità, dando l’idea di non aver assistito ad un reale percorso di trasformazione come, forse, era nelle intenzioni iniziali. Basti prendere ad esempio la scena in cui Guido e Giulia fanno l’amore la prima volta: quello che dovrebbe essere un momento di contatto profondo, di fiducia, di affettività riconquistate contro la diffidenza, l’egoismo e la paura scivola via in un clima di garbato buon gusto molto vicino alla sensibilità di Piccioni, ma stridente con quel particolare momento della storia e con la presenza potente, l’energia inquieta e rabbiosa che esprime in ogni gesto Giulia/Valeria.
Guido rimane un abbozzo, come le figurine dei suoi racconti incompiuti che Piccioni materializza in maniera posticcia e superficiale (rimane impressa solo Antonia Liskova ballerina di lap dance). E quando i Baustelle, che curano la splendida colonna sonora tra musica pop e chansonniers francesi, intonano sui titoli di testa “Mi manchi tu, un brivido, il ghiaccio nel campari soda….”, con la voce della Golino che si cimenta anche come cantante, pensiamo che forse Valeria ha interpretato il film che volevamo vedere, ma che Piccioni non ha fatto.
Alla prossima volta, speriamo con più ghiaccio.