“Trust’s a tough thing to come by these days”. La fiducia è una cosa difficile da ottenere oggigiorno. A parlare è Kurt Russel, mai così in parte, autentico portavoce della filosofia di John Carpenter. La cosa è forse il film più importante di un autore brusco e schivo quanto il protagonista MacReady, un capolavoro limpido, pietra miliare del cinema fantastico, che porta a compimento la commistione fantascienza/horror e travalica la frontiera del genere per darci uno spaccato severo, infelice e rigoroso della società americana degli anni ’80. Cioè dell’intero mondo occidentale. Certamente è un’opera spartiacque nella cinematografia dell’autore, poiché dal suo fallimento al botteghino americano dipesero le sorti successive della sua carriera di regista e un distacco più o meno irrecuperato da Hollywood.
Il film è in apparenza un remake di La “Cosa” da un altro mondo (The Thing From Another World, 1951) – diretto da Christian Nyby sotto la supervisione di Howard Hawks – ma le due pellicole hanno in comune soltanto il canovaccio della trama. Entrambi sono tratti dalla novella di William M. Campbell Who Goes There? (1938) – molto liberamente quello del 1951, con maggiore aderenza quello di Carpenter: il nucleo comune racconta di una creatura aliena rinvenuta sotto i ghiacci polari che assale i componenti di una base scientifica. Ma ciò che conta sono le differenze: l’alieno del film di Nyby e Hawks è un umanoide – una grossa “carota” – da poco atterrato al polo nord, che viene infine sconfitto dal gruppo di scienziati e militari; la “Cosa” carpenteriana, in linea col racconto di Campbell, è sepolta nei ghiacci da centinaia di migliaia di anni, non ha una sua forma specifica e imita alla perfezione ogni organismo col quale entra in contatto, insinuandosi così fra gli scienziati della base Antartica e sterminandoli uno a uno. Sopravvivono soltanto in due e chissà per quanto. Sopravvivono in due e forse uno di loro non è umano…
La cosa è la rappresentazione di un collasso di identità, responsabilità e fiducia nel mondo moderno: un concetto alla base dell’opera carpenteriana, che emerge e si precisa lungo la filmografia del regista, fino a raggiungere qui un livello di compiutezza assoluta. Concetto che produce un turbamento inaccettabile per la coscienza umana: gli spettatori si rifiutarono di assistere allo spettacolo, profondamente disturbati dal tema trattato. Parte del problema furono gli stupefacenti effetti speciali di Rob Bottin e Roy Arbogast. Bottin decise di mostrare più che suggerire la creatura e di portare in piena luce le evoluzioni e le trasformazioni del mostro. Lo stesso Carpenter ricorda persone che vomitarono dopo la scena in cui il cane si trasforma nella creatura e addirittura una donna che affermò di aver visto un feto uscire dal corpo dell’animale – parto totale della sua fantasia.Veicolo principale del problema dell’identità è dunque il corpo. La difficoltà nel decidere di chi sia – o di chi siano – i primi resti trovati nella base norvegese, si accompagna all’impossibilità di accettarne anche soltanto la natura umana, perché dell’uomo non v’è che un richiamo, una prossimità deformata, ma non un “corpo” così come viene comunemente inteso. Lo stravolgimento fisico è quindi la più concreta delle minacce all’identità umana. Il terrore che si legge nei volti della creatura sulla quale il dottore della base americana, Blair (A. Winford Brimley), si appresta a compiere un’autopsia, ha una matrice evidentemente corporea: l’espressione di quelle facce rimanda a una sofferenza tangibile, a un male causato dalla deformazione di ossa, nervi e organi, come se una mano esterna avesse cominciato a plasmare quel corpo – o quei corpi – quasi fossero di creta. Le urla silenziose che escono da quei volti “disturbano” letteralmente lo spettatore, perché sono urla di dolore, le grida di qualcuno sottoposto a violenza inconcepibile e stravolgente, tanto più spaventose perché silenti: qualcosa viene strappato fuori da quella che era una persona, l’identità fisica appare fissata nel momento in cui una forza esterna, aliena, la sta estraendo dall’involucro che la conteneva. E la paura pianta la prima bandierina, la più atavica, quella che scaturisce dal terrore di una sofferenza insopportabile.
La mutazione incute terrore perché comporta cambiamento. Ma la mutazione implica il passaggio da una forma a un’altra. Quello che scatena angoscia nel film di Carpenter è invece la mancanza di una forma precisa. La “Cosa” non ha aspetto: per definizione, essa è in grado di assumere le sembianze di qualunque organismo – vive nelle forme altrui – e questo rappresenta la sua forza e la prima ragione della sua pericolosità. Lo stadio intermedio tra la mancanza e la presenza definitiva di un’identità è troppo minaccioso per essere portato allo scoperto. La mancanza di una forma riconduce al concetto di “vuoto”, un vuoto che va necessariamente riempito. Ma il processo di riempimento cozza contro l’ansia di un annegamento dei residui di forma preesistenti. Il film mostra un processo analogo fin dalle prime inquadrature nell’immensa distesa bianca dell’Antartide. L’ambientazione polare, priva di riferimenti e di punti fermi riconoscibili è il riflesso più immediato della mancanza di forma di cui la “Cosa” è il corrispettivo organico. La “Cosa” si fa veicolo del concetto di “informe”, è il tramite attraverso il quale il nulla e il gelo dell’indeterminato biancore polare possono insinuarsi all’interno della base, fra gli uomini.
L’équipe scientifica del film è suddivisa in ruoli sociali ben precisi: ciascuno ha il suo compito e i suoi incarichi, ciascuno deve assolvere a mansioni particolari, secondo gerarchie stabilite. Le aree interne alla base sono ben delimitate e riservate ad attività distinte fra loro. La “Cosa”, oggetto perturbante, mette in crisi le relazioni tra i personaggi e la struttura sociale e gerarchica. Ma una volta che il discorso si allarga per diventare “sociale”, ecco che la minaccia portata dall’organismo alieno diviene minaccia all’intero ordine mondiale: il corpo umano diventa così sacrificabile affinché la “Cosa” non possa fuggire per invadere il resto del pianeta. Per difendere il proprio nucleo di identità più profondo – appartenenti alla razza umana – i sopravvissuti della base americana decidono scientemente di mettere fuori uso gli strumenti e le strutture che consentono ai loro corpi di sopravvivere al gelo, così da far scampare al mondo il pericolo. Rifarsi a ciò che si è, che si è costruito insieme, a valori comuni, a fattori di cultura e di civiltà condivisi, permette agli uomini della base di giungere alla difficile scelta di sacrificarsi. Guardando nell’abisso, i sopravvissuti scoprono un istinto di solidarietà che sembra quasi ottimista, cancella gli egoismi, annulla lo spirito di sopravvivenza per qualcosa di più alto. S
e funzionasse, però, non sarebbe John Carpenter.
L’organismo alieno possiede quindi la caratteristica di imitare perfettamente le creature con le quali viene a contatto, posto che gli si lasci tempo sufficiente per portare a termine l’operazione. Il termine “imitazione” tuttavia non rende le capacità di questo essere: a differenza, per esempio, degli alieni scaturiti dai baccelli di Santa Mira nel film L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956), il “prodotto” finito dell’operazione di assorbimento e riproduzione messa in atto dalla “Cosa” è perfettamente identico all’originale sotto tutti i punti di vista. Le copie prodotte nel film del ’56 lasciavano trapelare, attraverso indefinibili differenze di comportamento, la loro vera natura. Nel film di Carpenter questo non accade. Gli uomini trasformati in “Cose” sono indistinguibili dagli originali: ci troviamo di fronte a un vero furto di identità. E’ una trasformazione subdola, che ritorce contro gli umani le caratteristiche che in precedenza erano state fonte di fiducia. La “Cosa” fa più paura quando mantiene un aspetto simile al nostro, quando rapidamente, per non essere sorpresa, riassorbe i suoi tentacoli e diventa Uomo. Il salto di qualità è eccezionale, ed eccezionali le conseguenze. Il clima di sospetto che si innesca rende impossibile ogni collaborazione e affidabilità: conferire mansioni importanti a un compagno piuttosto che a un altro può risultare nella stessa percentuale una buona idea o la condanna a morte per tutti. Le scelte operate divengono scommesse con la sorte, il sospetto reciproco è snervante. Il rischio è quindi di trovarsi alla paralisi, all’incapacità di decidere e di agire. Intaccando la base identitaria, si vibra un colpo – il più radicale possibile – all’organizzazione complessiva delle relazioni umane.
Il discorso investe temi ancor più inquietanti. Il processo di annichilimento operato dalla “Cosa” sugli “originali” non giustifica tanto la definizione di “imitazione”, quanto quella di “sostituzione”. Non possiamo più risalire all’autenticità. Il lavoro dell’alieno è stato veramente ben fatto: esso inietta l’Altro nel Sé, non ve lo sovrappone semplicemente. I simulacri, che non sono uomini, sono però tutto ciò che rimane dell’uomo di prima. Se li spazziamo via, spazziamo via anche lui. Si tratta di una conclusione difficile da accettare. L’identità è soltanto contaminata, inquinata dall’attacco subito, ma non del tutto perduta: questa “nuova versione” non è solo una copia. Come si può ucciderla senza avere la garanzia che il vero qualcuno che era è già morto? Quando Bennings si tramuta nella “Cosa” la prima reazione di Garry è il rifiuto: «Io conosco Bennings», dice, «lo conosco da tanto tempo. E’ mio amico!». Il fatto è che Garry ha ragione: il Bennings che tutti conoscono è dentro alla creatura che MacReady si accinge a bruciare e morirà con essa. La presenza di una componente “altra” nel sé di una persona rende impossibile la separazione netta fra ciò che va eliminato e ciò che va mantenuto: bisogna accettare o rifiutare in blocco l’identità che ci viene presentata davanti, bisogna riconoscere la presenza del diverso nell’uguale.
Ogni azione nel film resta come sospesa in un limbo, impossibile da vagliare fintantoché un qualche evento della trama non arrivi a chiarire se il personaggio che ne è autore sia umano o “Cosa”. Sembra quasi che questo clima di sospetto che lo spettatore stesso si trova ad alimentare si trasmetta ai personaggi – non solo gli uni nei confronti degli altri, ma addirittura verso se stessi. E’ praticamente impossibile non cadere in una spirale di insicurezza, non domandarsi se per caso non si sia già “Cose”, se sia possibile accorgersi, capire se l’alieno ci abbia “cambiati”. L’osservazione e il controllo perpetuo scatenano complessi di colpa tanto più stranianti quando si cova il dubbio su ciò che veramente accade – su quello che si sente – quando il mostro si impossessa di noi. Se è quindi un senso di colpa che investe ciascuno dei presenti quando ci si rende conto che tutti sono sospettati, ecco che subentra la necessità di far fronte a questa sorta di “calunnia” collettiva con una dimostrazione palese della propria umanità: ci si impegna a comportarsi bene, ci si lascia osservare, esaminare, scrutare. La disponibilità a essere controllati corrisponde al bisogno implicito che gli altri riconoscano per buona la nostra identità, e che, dopo averla vagliata, la convalidino. In molte occasioni Carpenter adotta il punto di osservazione di un personaggio che nutre un forte sospetto su di un altro, operando con maggiore o minore impegno per fare, di quel sospetto, oggetto proprio e, quindi, dello spettatore. Queste focalizzazioni, che indirizzano i sospetti o la fiducia dello spettatore nei confronti dell’uno o dell’altro personaggio, sono delle vere e proprie false piste. L’intero film è costruito per supportare legittimamente ogni dubbio, e il risultato è quell’intollerabile, inquietante interrogativo sull’identità di ognuno, che scatena il terrore più profondo cui un film horror possa aspirare.
Lo stimolo fondamentale che muove i personaggi alla ricerca di una risposta è determinato dal bisogno imprescindibile di potersi fidare di qualcuno. Senza tale possibilità – che MacReady estende all’intera condizione umana – ogni operazione è vanificata. Nella sequenza della “prova del sangue” questo principio viene scalzato dalla posizione cardine che ricopre nella vita reale e le immagini mostrano le conseguenze di questo slittamento. La sequenza della “prova del sangue” mostra il tentativo più completo messo in atto dai personaggi per risolvere il dubbio fondamentale riguardo la loro effettiva identità. E’ forse la sezione più importante dell’intero film, risolutiva per la storia, perché permette una forte semplificazione dell’intreccio e assolve a una fondamentale funzione catartica. MacReady sottopone con la forza gli altri membri della base scientifica a un test del sangue, per scoprire se tra loro c’è un impostore e chi sia in realtà. La sequenza è frammentata, la regia sobria ed essenziale, con un numero altissimo di inquadrature – centotrentotto – per non più di sette-otto minuti. Il rapporto fra durata e numero delle inquadrature diminuisce nei momenti di maggiore suspence, i movimenti di macchina sono pressoché inesistenti, la musica di Morricone è assente, nessun personaggio viene privilegiato dalla focalizzazione e il dialogo si mantiene rarefatto fino a scomparire del tutto. Il momento dell’incisione è uno dei più intensi della sequenza e dell’intero film: nonostante si tratti di un semplice taglietto a un dito, è impossibile trattenere un senso di fastidio, di ritrazione davanti alle immagini. Il momento del taglio ha prodotto negli spettatori sensazioni di rifiuto anche superiori a quelle di molti degli effetti speciali
più disgustosi ed eccessivi. Il sangue incute paura, repulsione, schifo, proprio perché è la nostra “carta d’identità” biologica e per nessuna ragione siamo disposti ad accettare di vederlo uscire dalla nostre vene. Soltanto lì esso garantisce che tutto procede bene, che niente ha lacerato il tessuto impalpabile della nostra integrità, o quello asciutto e tranquillizzante della nostra pelle.
In questa sequenza emerge allo scoperto una tema sotterraneo presente in tutto il film: la totale incomunicabilità fra l’umano e l’alieno. Per tutta la durata della pellicola non si registrano tentativi di avvicinamento al mostro, di contatto non violento, per così dire, di una forma di comprensione che preceda la guerra, la reciproca distruzione. Persino la macchina da presa non tenta alcun approccio. Ma non occorre parlare di xenofobia o pulizia etnica, per carità. Manteniamo un po’ di sano manicheismo almeno nella fantascienza, in un decennio fra i più conformisti, dove solo il cinema di genere sapeva davvero violare le regole. Lasciamo un po’ di bene contro male, ogni tanto, almeno quando l’aggressione è così specifica e intollerabile che non resta soluzione diversa all’uomo che distruggerne l’origine. Tale è il prezzo da pagare per mantenere saldo quel senso di sé, senza il quale la vita stessa non è altro che una continua fucina di orrori.