Sorta di Zelig che scopre il conflitto di classe, l’indigente afroamericano Paul/Will Smith, protagonista apparente di Sei gradi di separazione, esperto del giovane Holden quanto dell’arte della menzogna, si finge altri da sé in cerca di accettazione. Irrompe all’improvviso nella vita dei Kittredge, mercanti d’arte con appartamento sulla Fifth Avenue, e poi di altre ricche e bianche famiglie newyorchesi, e si offre loro in adozione. Cerca un nido più caldo di quello che la vita, per nascita e censo, gli ha destinato.
Ma questo è solo il mcguffin.
Paul è in realtà il personaggio che lo sceneggiatore John Guare, autore già della pièce da cui Sei gradi è tratto, utilizza per far emergere l’apparato di finzione che regge l’esistenza dei Kittredge e dei loro pari: la falsa coscienza di un progressismo che di liberale ha solo la concezione degli affari, la mistificazione di una pretesa integrazione razziale che non ha alcun fondamento concreto, al di là del politically correct. Tra vernissages, ricevimenti e party esclusivi, questi individui cercano nelle parole con cui continuamente (si) raccontano le proprie vite un orizzonte letterario che giustifichi e in qualche modo conferisca spessore al vissuto. Nei quadri e nei libri, di cui affollano indistintamente salotti e conversazioni all’insegna di un mero collezionismo, credono di trovare una dimensione che giustifichi la verità arida, e interessante solo per loro, delle loro vite. Tutto intorno al proprio vuoto di idee e di sentimenti hanno innalzato dei veri e propri totem; e tanto più alti sono quei totem (uno tra i tanti: il mito di Harvard, tanto caro alla upper class americana e qui clamorosamente sbeffeggiato), tanto più grosse sono le bugie che li sostengono.
Stanare queste bugie è l’assillo e il talento di John Guare, la sua personale cifra poetica. Guare identifica il bizzarro e il comico nella (miseria della) condizione umana, l’ingigantisce a dimensioni grottesche (teatrali) fino a provocarne l’esplosione: dalle macerie parte la ricerca di quella verità che i suoi personaggi si affannano a nascondere. Drammaturgo brillante e raffinato, attivo sulla scena teatrale newyorchese sin dalla fine degli anni ’60, gli incroci di Guare con il cinema, in veste di sceneggiatore, sono rari ma preziosi: il piccolo gioiello post-’68 Taking off (1971) diretto da Miloš Forman, l’acclamato Atlantic City (1980) di Louis Malle e quindi Sei gradi di separazione che, a tutt’oggi, è l’unica trasposizione diretta di una sua commedia. Ed è un film suo a tutti gli effetti: mentre il director Schepisi si limita a dirigere il traffico, Guare ci mette di suo la satira contro la borghesia sofisticata e sazia dell’America contemporanea; suo è lo humour graffiante, guidato da una lucidità critica che non penalizza mai il divertimento puro. Non c’è mai sentenziosità o predicatorietà nel suo sguardo, pur così impietoso: l’ironia – da intendersi qui propriamente come l’atto di affermare il contrario di ciò che si vuole intendere – è lo strumento fondamentale di cui si serve, il filtro attraverso il quale decodifica e restituisce il reale.
L’uso della locuzione che dà il titolo al film è emblematico. Secondo una ormai nota teoria scientifica, che Ouisa Kittredge/Stockard Channing s’incarica nel film di esporre, sei soli livelli di connessioni separerebbero ciascun individuo da un altro, sottintendendo con ciò una stretta vicinanza “umana” tra gli abitanti della Terra. “Siamo tutti come delle porte, aperte su altri mondi”, ripete accorata Ouisa. In tempi come quelli attuali di social network a copertura totale, il concetto risuona ancora più lampante. L’intero film, però, si occupa di confutare e ribaltare questa tesi, utilizzata quindi per affermare il suo opposto. Se è vero infatti, per dirla con Valeria Merola, che Guare esibisce continuamente “il sistema di reciproche dipendenze che lega tra di loro i personaggi”, in realtà lo fa per poi schiacciarli e relegarli, alternativamente, al ruolo di “personaggi di contorno nelle vite degli altri”; ironicamente espropriati della identità di protagonisti. La prossimità relazionale rimane dunque un’eventualità misurabile dal calcolo delle probabilità e non il presupposto materiale per un’autentica empatia tra gli esseri umani.
Ecco perché l’irruzione del misterioso Paul, l’inatteso quanto fasullo inno all’immaginazione recitato da uno sconosciuto che si dice il figlio di Sidney Poitier e promette comparsate in un’imminente trasposizione cinematografica di Cats, può bastare a minare le fondamenta di un’intera struttura esistenziale. è la testimonianza che la vita non è tutta lì, tra un Cezanne da piazzare ai giapponesi e una citazione colta da sfoggiare in società: esiste un’umanità che ci è sorella e può, una sera che mai lo diremmo, bussare alla nostra porta. Rappresenta la possibilità.
Ci sono bugie dalle quali è troppo piacevole lasciarsi persuadere.