Fatico dannatamente a vedere i film italiani. E non per una esterofilia mal digerita. Ma per un disarmante infantilismo degli autori nostrani. Che mi genera una sorta di imbarazzo, misto a un sentimento che subito sovviene, di vergogna.

Mi immedesimo, purtroppo. Cerco di entrare nella testa e nel cuore degli autori, cerco di respirare ―per così dire ― la loro stessa aria. Provo a ripercorrere le loro stesse scelte di regia. E raramente ne esco soddisfatto.

Chiarito questo sentimento, ho assistito alla proiezione de La Madre di Angelo Maresca, e siccome credo sia giunto il momento di una riflessione strutturata, lo prendo a “spunto” di quanto affermavo prima, per la mia argomentazione.

Per il lettore entusiasta, invece, è meglio che si fermi qui: ciò che segue non credo gli farà un gran piacere. Parlerò di semiotica, e poi ritornerò sul Titolo in questione.

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Il film rientra nella categoria degli atti comunicativi, ed anzi ne è forse uno dei più sublimi ed elevati esempi. Un suggello. Comprende la fotografia, il teatro, la scrittura, la musica, perfino la danza, sicuramente il ritmo ― fusi insieme in un mix magico proiettato verso il futuro, verso la propria “visione”.

Ma al contempo il film costituisce l’attualizzazione della più arcaica delle forme di socializzazione, quando i nostri primi progenitori si raccoglievano nelle caverne attorno ad un fuoco, ad una luce, e si raccontavano le loro esperienze, magari i loro sogni, forse anche solo a gesti. Quella grotta è l’odierna sala cinematografica.

Come tutti gli atti comunicativi, il film richiede un codice comune fra autore e fruitore. Ma richiede anche che l’autore abbia “qualcosa” da comunicare, e soprattutto che lo voglia fare. Questo “qualcosa”, il contenuto, veniva chiamato da Tullio de Mauro, nelle sue lezioni universitarie sempre meditative e dense di riflessione, il “Testo”.

Lo scrivo con la “T” maiuscola, per far capire che non si tratta di mera scrittura, ma di qualcosa di più profondo, di un “progetto” di comunicazione. Che ha uno scopo, dei mezzi, delle modalità, dei codici, etc. una architettura, una struttura. E cosa, meglio di un film, rappresenta questo Testo?

Per chiunque si sia cimentato nell’arte del cinema, la scrittura di una sceneggiatura è un’impresa niente male: perché racchiude un’idea che valga la pena di raccontare, la sua descrizione, prelude alle immagini e alle chiavi di decodifica che devono essere fatte proprie da tutta la compagine produttiva ― ed in primis dagli attori (di cui parlerò in chiusura) ― contiene i dialoghi che sono la parola diventata emblema ed immersa nell’azione. Parole che non possono essere banali, quotidiane, o “di testa”, ma necessitano di un ritmo, di un interno ed intimo complesso legame musicale.

Una sceneggiatura è una ricetta magica. Saper leggere una sceneggiatura è un’arte, non meno complessa di quella che occorra per produrla.

Se la sceneggiatura fa acqua, manca di ritmo, è caotica e confusa, o anche solo molto scarna, il risultato è conseguente, inevitabile. Deludente.

Lo sceneggiatore sarà il regista del film? Improbabile, molto improbabile. Si tratta di due talenti quasi alternativi. Lo sceneggiatore sarà allora anche colui che scriverà i dialoghi? Anche qui si tratta di due attitudini diverse, ed è scarsamente probabile che convivano nella stessa persona. Per non parlare delle musiche: per le quali non tutti i musicisti sono in grado di seguire e immaginare i timbri, le cadenze, i movimenti musicali più adatti a sostenere una partitura cinematografica. Occorre un genio speciale, e noi in Italia ne abbiamo avuti alcuni di straordinario talento. La musica costituisce forse il 50% dell’impatto emotivo del film.

Lasciatemi fare ora un ragionamento puramente statistico: la probabilità che in un solo singolo individuo vi siano la competenza dello sceneggiatore, insieme a quella di dialoghista, di fotografo, di regista e di musicista è pari alla formula della “probabilità condizionale”, che decresce ad ogni passo, ad ogni sintagma aggiuntivo, ad ogni nuova clausola specificatrice. Quasi pari a zero.

Se pensate che invece, nel cinema italiano, i registi ruspanti in larga misura “fanno tutto loro”, capirete bene cosa intendo per infantilismo del nostro cinema. Dirò di più, e mi incanaglisco: è come se i nostri Autori non si sentissero tali, se non quando ricoprono il massimo delle competenze su cui riescono a mettere il cappello. Assurdo. Di una banalità sconcertante. Tutti Leonardo da Vinci, almeno. Se non di più.

Non so perché sia nata questa presunzione di onnipotenza o onni-talenza, ma credo di non sbagliarmi troppo nel dire che proprio questo sia il disastro del cinema italiano d’autore contemporaneo. Come uno studente del penultimo anno del liceo, che non ha ancora superato gli esami di maturità: qualunque cosa faccia va bene, perché è già un miracolo che gli sia riuscita. Vuoi stare anche a criticare? No, di certo.

Ma se devi porre la produzione italiana a confronto sul piano internazionale, allora sono dolori. Il “racconto” è sempre un auto-citarsi, il classico “parlarsi addosso”. La storia comincia sempre con “Allora, c’è un regista e una attrice che…” .

Ho lanciato il sasso nel pozzo, e mi fermo a guardare i cerchi. Sarò ben lieto di argomentare con tutti coloro che vorranno criticarmi, scene e titoli alla mano però, circa l’infondatezza e l’insussistenza del mio pensiero. Ma ora passiamo al film.

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Nel film “La Madre” il fattaccio è già successo. Non sappiamo come e perché, né i flash-back ce lo raccontano; ma il sacerdote, Don Paolo-Dionisi, ha già una relazione edonistica e morbosa con una inesistente Agnese, interpretata da Laura Baldi.

A noi non interessa sapere Cosa succede: quello lo fa la cronaca, e si spera adducendo fatti e circostanze testimoniali. Né interessa sapere Perché succeda, questo lo fa la saggistica. A noi, umili spettatori cinematografici, interessa invece sapere Come succede. Come sia possibile che un sacerdote bravo, onesto, scrupoloso, elogiato da tutti, un simbolo ed un modello per la sua comunità ― che si rivolge a lui come a una guida spirituale e un faro nel buio del presente ― cada nella tentazione della carne, da cui lo dovrebbe tenere al riparo un precetto inderogabile di castità, ed i sacri voti che lo hanno sancito.

Se non scendo all’inferno insieme a Don Paolo, perché sto buttando due ore per vedere interminabili passaggi nei colonnati e colonnati e colonnati della chiesa, e di tutti i percorsi peripatetici limitrofi? E perché la Madre, stuprata su una spiaggia e sporcata non dal seme clandestino, ma dal denaro, vive un inferno rappresentato dal precedente parroco, don Quirico, trasformatosi nel demonio che semplicemente “parla” con lei, ma né la tenta né si interessa del figlio?

Se non mi parli di questo, di cosa mi parli?

Così, fra interminabili inseguimenti e fermo macchina compiaciuti, il racconto di Grazia Deledda muore fra le mani di un regista inadeguato. Hai voglia poi a dire che “l’opera voleva sganciarsi dal funzionalismo cinematografico americanizzante”: le corde della nostra arpa interna, quella che regola l’umore, il cuore ed il cervello, rimangono graniticamente mute.

Rimane solo un discreto documentario sulla bella chiesa che fa da location. E la Madre, sempre in ginocchio a pregare e ringhiare a denti stretti contro i fantasmi, diventa una patetica Carmen Maura che sembra ritornare indietro ai suoi esordi.

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Ultima notazione per gli attori italiani contemporanei, come promesso. Anche per loro vale un mistero che non son spiegarmi, e vorrei tanto che qualcuno più furbo di me mi aiutasse a comprendere.

Normalmente, buttano via le battute. Recitano tutto di fila, quasi che non vedano l’ora di pronunciare l’ultima parola e liberarsi di quell’incombenza. Ci mettono solo un po’ di diaframma, per fare vedere che sono arrivati a pagina 5, quasi che gli scotti dentro e debbano tirare fuori le battute il più velocemente possibile.

La differenza fra un attore italiano di punta, o di grido, ed un normale attore di b-movie o anche di fiction americano, è la stessa che esiste fra un bicchiere d’acqua liscia e un bicchiere di brandy o di armagnac d’annata. Il primo lo mandi giù e non ci pensi più, il secondo lo assaggi, lo centellini, lo soppesi, lo fai crescere nel palato, gli dai tempo, espressione, meditazione.

Se facessi l’attore starei tutto il giorno incollato ai film di Anthony Hopkins ― per dirne solo uno, ma ce ne sono a migliaia là fuori ― e tenterei di imitarne le cadenze, le espressioni, le pause, i movimenti sopracciliari, i minimi tic che rendono vivo il suo personaggio, le variazioni di timbro, di mimica, di espressione… che musica!

Invece, coi nostri interpreti nostrani, sembra sempre di assistere alla recita di fine anno: scrolli le spalle e ti rallegri, al termine, che sia finita. E che abbiano chiesto a qualcun altro di farne il filmino.  Possibile?

One Reply to “In margine a “La Madre””

  1. Grazie della bella recensione: l’indagine sul malessere dei nostri registi contemporanei che ambiscono a voler far tutto con risultati mediocri è stata chiara, precisa e seduttiva.È un piacere leggerti, una garanzia per le mie selezionate visioni al cinema. Buon lavoro.

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