di Serena Soccio / Chi per motivi suoi si è allontanato da casa (o si è allontanato e basta) e non vi ha quasi mai più messo piede, si immergerà a pieno titolo nell’ultimo film di Xavier Dolan non senza commozione.
I giorni successivi alla visione di E’ solo la fine del mondo, sono trascorsi con una strana inquietudine. Si sovrapponeva al ricordo dei vividi fotogrammi, dei primi piani epidermici, delle urla di un magnifico Cassel, degli occhioni ricettivi di una superba Cotillard, la canzone dei Radiohead “How to disappear completely” e contemporaneamente una frase di Cheever che mi ero appuntata tempo fa su un foglietto e che rappresenta a mio avviso tutta la grazia, l’impotenza e la contraddizione dello sguardo di uno straordinario Gaspard Ulliel e di buona parte del cinema della mancanza di Dolan:
“In realtà non ho nulla da dire e se proseguo è soltanto perché mi sembra di parlare con te, e vorrei tanto parlare con te.”
Provando così a corteggiare queste suggestioni e a risalire la filmografia del giovane talentuoso, estremamente cresciuto, anche solo nella ridimensione del narcisismo consueto che lo caratterizza, provo a immaginare che la vera ossessione sia per Dolan “la fine” e le sue varie declinazioni, (l’avvicinarsi di qualcosa che cambierà tutto, il non sapere cosa succederà, l’attesa e l’incerto ricominciare o l’essere già dopo qualcosa) e che in questo suo ultimo lavoro prenda una connotazione più concreta e accetti una sfida esistenziale e stilistica assai ardua.
Come un’anticipazione di Tom à la ferme in cui gli altri personaggi continuavano a sopravvivere al defunto, in E’ solo la fine del mondo, il protagonista si trova nella difficile condizione di voler tornare a casa per comunicare qualcosa di importante ai suoi familiari.
Ma come si prende coscienza veramente della propria morte e come comunicarlo poi a qualcuno che ancora non lo sa?
Come rappresentare l’imminente “non essere più” pur essendoci ancora?
Come convivere cioè con l’anticipazione della propria morte quando la fine diventa un fatto e non più una possibilità?
I’m not here
this isn’t happening
I’m not here
I’m not here
(canta Thom Yorke)
Forse se stai per morire l’unica cosa che viene da fare è ricongiungerti con l’origine. Quell’origine soffocante che hai sfidato e scacciato e da cui sei fuggito per tanto tempo, diventa in questa condizione fondamentale. Il ritorno alla famiglia, all’origine della tua creazione.
Alza il tiro Dolan si svincola dall’ossessione edipica e finalmente uccide metaforicamente la madre, per occuparsi di un’altra morte, più metafisica forse.
Lo ritroviamo emancipato in parte, come dando per scontato che i suoi protagonisti parlino sempre di lui del suo vanitoso raccontarsi, di fare quel tutt’uno ormai sicuro stilisticamente nel sovrapporre realtà privato e macchina da presa.
Si impreziosisce nell’uso del linguaggio, francese verboso questa volta e non più quebecchese imbastardito dallo slang americano oltre al cast di stelle splendenti.
Luis giovane e affermato drammaturgo, torna a casa dopo 12 anni di lontananza, con l’intento di voler comunicare ai suoi che sta per morire. Ad aspettarlo, la famiglia sempre disfunzionale nei suoi film, violenta, quasi cannibalica i cui componenti risultano spesso eccessivi, ipertrofici.
Hanno riempito l’attesa del ritorno di Luis ciascuno a suo modo, chi rancoroso e triste rivestito di un ruolo da capofamiglia mai all’altezza del fratello, chi nel ricordo o nell’interpretazione di qualche laconica sua cartolina, chi come la madre che in fondo quel figlio non l’ha mai capito veramente o come la cognata, unica sconosciuta che la non-prossimità affettiva rende permeabile ed empatica.
E così la narrazione derivante dall’assenza, si fa simbolo costruito nella mancanza e i personaggi immaginati non hanno più attinenza con la realtà che Dolan cerca di trafugare con una focale strettissima sui volti degli attori per scrutarne i segreti, pedinando gli sguardi e i movimenti impercettibili o gli sbotti d’ira in cui neanche lo spettatore viene risparmiato.
Un teatro della crudeltà in forma cinematografica dove il disagio di dover comunicare la propria imminente morte e quindi la sparizione definitiva e la sua rappresentabilità, si scontrano con la nevrosi familiare e della rappresentazione di quel vero sé arruolato e costretto alla performance da un fattore esterno (arte, famiglia e società).
Tutti vorticano quasi deformati dalla regia in primi piani senza scampo su una giostra di verità incomunicabili, dove la reazione è l’unica azione possibile a rabbia e frustrazione.
Il disagio di Luis inchiodato impotente tra urli, sguardi troppo invasivi e claustrofobici da cui già probabilmente era scappato, è la stessa sensazione angosciosa che si riversa sullo spettatore che viene costantemente respinto nel tentativo di trovare un territorio comune e uno spazio condiviso di ascolto.
Luis ha il durissimo compito (metafora dell’attore in scena) di dover vivere lo spazio di un presente, dove passato e futuro non hanno più significato e la scelta coraggiosissima che fa è quella del rifiuto della assurda consolazione che si riserva a chi sta per morire. Perché non parla? Non trova ascolto? Si è avventurato in quel viaggio di ritorno immaginario per scoprire che nulla era cambiato? E perché allora rimane nella sua passività reattiva quasi perversa senza provare a modificare il corso delle cose, lasciando gli altri nella sospensione?
Eppure Dolan sembra cucire spesso anche un sodalizio tra se stesso/personaggio e platea. Chiede in fondo sempre una complicità quasi intima allo spettatorere che ingaggia, nella sua guerra contro le convenzioni.
Non a caso, giocando sull’empatia la prima cosa che fa è confessarti un segreto, un pensiero nascosto, un’intenzione, confidando nella condivisione di una sensibilità comune e sa che per questo non lo si tradirà.
E così Luis sa di essere salvo infine, il suo segreto in fondo l’ha confessato per primo a noi, al buio in platea, in quel patto d’amore impalpabile a volte tra l’artista e il suo pubblico.