Il Rome Independet Film Festival arriva alla sua XIV edizione, ospitato come di consueto dal Nuovo Cinema Aquila, sede storica del Festival, e da quest’anno anche dal The Space-Cinema Moderno. Programma vastissimo di proiezioni e diversificato nell’offerta tra cortometraggi, lungometraggi, documentari italiani e internazionali, film di animazione, series e progetti provenienti dalle scuole di Cinema e altri Festival, ma soprattutto a coprire, almeno in parte, l’imperdonabile mancanza di un festival del cinema LGBT, o meglio ancora un Festival Queer nella capitale italiana nonché capitale per eccellenza della settima arte (pur menzionando comunque la rassegna queer indipendente Agender nata dal Tek Festival 2002-2010). Così la proposta della sezione delle 7 opere vincitrici del Teddy Awards, premio internazionale per film con tematiche LGBT di Berlino.
Spiccano tra i vincitori berlinesi, in particolare The Circle dello svizzero Stefan Haupt, che con un’ottima operazione di contaminazione tra documentario e film ci racconta, sullo sfondo del regime nazista, una Zurigo che riscopre una fama internazionale grazie alla nascita del circolo omosessuale e della rivista gay Der Kreis che offriva, nel primo dopoguerra, uno spazio segreto e protetto di arte e incontro per migliaia di visitatori di tutta Europa. La storia d’amore è resa mirabilmente verosimile grazie all’interpretazione dei due attori: Enrs, un insegnante in una scuola femminile che rischia di perdere il lavoro in quanto omosessuale, e il suo compagno Robi, drag queen che si esibisce sul palco del The Circle ogni sera, i quali, insieme, lotteranno con coraggio fino alla fine per vedere riconosciuto il loro diritto alla libertà. A rendere ancora più commovente la presentazione del film, la presenza in sala dei due protagonisti, ora ottantaquattrenni, emozionati come due eroi di una guerra assurda mai del tutto vinta.
Affronta il tema del transessualismo e dell’esclusione nella cornice politica della rivoluzione sandinista il film El hombre nuevo di Aldo Garay, regista uruguayano che ci mostra il viaggio a ritroso di Stephania, un transessuale nato in Nicaragua e adottato da bambino che ritorna ora alla scoperta della sua vera famiglia e del paese di origine con una nuova identità.
Ma quello che più colpisce nel segno e che affronta il tema del limite imposto dall’ignoranza della società e dal corpo stesso per sua composizione e continua trasformazione, è senz’altro il delicato The way he looks del giovane Daniel Ribeiro, in cui l’adolescente protagonista, Leo, affetto da cecità e quindi già oggetto di discriminazione tra i suoi compagni di scuola, scopre con semplicità e senza troppi traumi il fatto di sentirsi attratto dal nuovo amico Gabriel.
Gabriel si avvicina (come un angelo forse nel passaggio tra un limite e una possibilità), inesperto ed emozionato, alla condizione di vita di Leo, e a ciò che lo esclude notoriamente da essa, e prova a superare quell’imposizione data proponendo al compagno non vedente di andare al cinema, oppure di vedere un’eclissi, per così poi riuscire effettivamente a condividere qualunque esperienza.
Così, ancora una volta, è il superamento dell’identità ad essere urgente. Per quella qualità deleuziana e prima ancora spinoziana del “cosa si può” contrapposto al “cosa si è”, liberandosi finalmente dalla gerarchia dell’identità, dell’origine, della trascendenza a favore di una realtà intesa come un flusso dinamico, tanto simile a quello scorrere di fotogrammi.