Francesco Munzi riesce a superare le facili compassioni e i furbi sociologismi di una certa sinistra che ama contrapporre il fascino esotico dell’extracomunitario buono alle intolleranze egoiste dei perbenisti. Grazie a dio ci risparmia la caduta in questo stereotipo e dà un’immagine della complessa realtà di convivenza tra culture diverse, intensa ed essenziale.
In breve la trama del film: Maria, domestica romena presso una ricca famiglia che vive in una specie di Olgiata torinese, viene licenziata dai suoi padroni Silvana e Giovanni in seguito al sospetto di furto di un paio di orecchini. La ragazza si rifugia presso il suo ex fidanzato Ionut che vive con il fratello Victor e sbarca il lunario rubacchiando qua e là in combutta con Marco, giovane cocainomane disadattato. Rapinare la villa dove lavorava Maria sembra a tutti un’ottima idea per guadagnare soldi facili.
Nel film di Munzi, è vero, gli immigrati romeni rubano ma anche gli altri, quelli “italiani”, non sono da meno: extracomunitari dell’anima, estranei a se stessi rubano l’amore, ingannano e si ingannano, offrono indifferenza ai figli e calpestano i sentimenti propri e altrui. Maria ruba gli orecchini, Giovanni sfugge alla noia dell’esistenza e all’incomunicabilità coniugale tentando di strappare l’amore a una disillusa e sofferente giovane amante (una sobria Valentina Cervi). In questa “notte” italiana tutti sono colpevoli, nessuno è innocente: in una scena del film, Maria raccoglie le foglie secche nella piscina della casa-bunker dove lavora, metafora di un occidente rinsecchito, rattrappito nelle sue paure e solitudini, ma incapace di prendersi cura, in grado soltanto di delegare il proprio accudimento in un clima di irrisolta diffidenza e ostilità.
Il resto della notte è una notte dove è sempre più notte, dove non c’è salvezza, né vincitori, né vinti, dove la disperazione di Silvana, Marco, Victor, Giovanni è una e unica, appartiene al mondo, un mondo senza il male perché ognuno è mosso da meccanismi reconditi e incontrollabili che sovrastano gli individui alla ricerca affannosa di un bene su cui si ingannano, che confondono l’amore rubato o il bottino di una refurtiva con un viatico per la vita, con una speranza di continuità degli affetti (lo zainetto che sul finale Victor, fratello minore di Ionut, stringe a sé dopo aver perso il fratello durante la rapina nella villa).
Quello di Munzi è uno straordinario progresso rispetto all’esordio di Saimir, caratterizzato da una decisiva partecipazione diretta del regista. Ora si cede il passo a un distacco compassionevole tale da dare una dignità autonoma ai personaggi: il regista, i protagonisti e lo spettatore assumono identità proprie, non c’è spazio per il giudizio e la retorica, e chi osserva è libero di stabilire il punto d’equilibrio tra ciò che viene ripreso e chi sta riprendendo.
Questo è un grande film, meno spettacolare e d’effetto di Gomorra o de Il Divo, ma decisamente più coraggioso, perché nel raccontare una scomoda verità con uno sguardo così lucido e secco lascia spazio a tutte quelle libere interpretazioni e manipolazioni che gli sono valse anche l’accusa di “leghismo” e razzismo. Ma la serietà e la responsabilità del suo sguardo non sono valori di questa o quella categoria politica mentre di tutti dovrebbe essere la consapevolezza di condividere un destino comune di umana sofferenza.