[****] – Superato il metal detector del controllo bagagli in aeroporto, il giovane Malik (il quasi esordiente Tahar Rahim) solleva le braccia per agevolare la perquisizione poi, inaspettatamente, tira fuori la lingua. Non si tratta di uno sberleffo o della stravaganza di un folle. E’ il riflesso automatico dell’abitudine, la coazione a ripetere di un detenuto in semilibertà. Malik non distingue una normale procedura d’imbarco dalle perquisizioni ben più invasive cui è quotidianamente sottoposto al rientro in carcere.
Esemplare assunto foucaltiano del corpo docile, Malik spalanca la bocca come gli è stato insegnato, affinché il secondino possa accertare l’eventuale presenza di capsule di droga.
Bocca, lingua e labbra, sono ricorrenze del cinema di Audiard, dettagli messi in risalto oscurando talvolta il resto dell’immagine con un effetto matte, che rinviano all’attenzione del regista per il potere quasi alchemico della parola, non ostacolato e anzi spesso alimentato dalle discrasie del linguaggio.
In un precedente noir del regista, Sulle mie labbra, l’handicap fisico della sordità determinava sia l’iniziale condizione di frustrazione che la successiva opportunità di riscatto della protagonista Carla (Emmanuelle Devos), grazie alla sua diversa abilità di leggere le parole a distanza studiando i movimenti delle labbra.
Così anche il giovane profeta, il diciannovenne semi-analfabeta Malik El Djebena, saprà trasformare il deficit comunicativo in un’arma vincente.
Quando, alla scuola del carcere, gli domandano quale sia la sua lingua madre, esita a rispondere. Non il francese, appreso per necessità di sopravvivenza, lingua del paese che lo accoglie con la sua politica inclusiva a parole, ma che, di fatto, prima lo marginalizza nello spazio amorfo della banlieau, poi lo segrega in una galera. Non l’arabo, dalla musicalità famigliare e avvolgente, ma dalle troppo segrete corrispondenze con un orizzonte culturale sfuggente.
Immigrato sottoproletario, senza legami di solidarietà all’interno, fisico esile e un viso quasi effeminato, Malik sembra destinato a soccombere nel buco nero darwiniano in cui si trova recluso.
Il suo destino è segnato quando viene costretto a compiere un omicidio, in cambio della “protezione” del clan dei corsi, un po’ mafiosi un po’ indipendentisti, che nelle mura del carcere fanno il bello e il cattivo tempo, complici alcuni secondini compiacenti.
Salvatosi la pelle e “passato di grado”, il giovane diventa il servo tuttofare di Cesar Luciani, il vecchio boss corso (un memorabile Niels Alestrup nel suo ruolo migliore di sempre), guadagnandone lentamente la fiducia, se non proprio il rispetto. A legarli è un rapporto utilitaristico di dipendenza reciproca, in cui non c’è spazio per la benevolenza. Ciascuno vampirizza avidamente l’altro guardandosi bene dal rivelarne l’implicita debolezza del bisogno.
D’altronde, una delle lezioni da tenere a mente quando si finisce dentro è farsi i fatti propri e parlare il meno possibile.
La parabola del profeta Malik dimostra come il segreto sia affinare l’arte del silenzio e dell’ascolto, comprendere i sistemi di realtà, a cominciare dal microhabitat della prigione, per poterli a tempo debito controllare e infine dominare.
Sveglio e astuto, mente lucida, persino ispirato dalle visioni ricorrenti del fantasma dell’uomo assassinato che, lungi dall’affliggerlo col senso di colpa, pare piuttosto accompagnare compiaciuto i progressi morali e intellettuali del giovane, Malik impara il corso, la strana lingua dei suoi circospetti alleati, semplicemente prestando attenzione alle sue arcaiche, inafferrabili sonorità. Ha modo così di spiare trame e cospirazioni, comprendere i rapporti di forza dentro e fuori il carcere, individuare le fonti di approvvigionamento, i punti deboli e i nervi scoperti dell’organizzazione. La conoscenza della lingua sarà il viatico che gli consentirà di uscire dal carcere, dapprima in missione per conto del padrino, infine da libero professionista del crimine.
Ancora una volta il linguaggio, come connettore di una rete di relazioni, è l’elemento dirimente sulla via della conquista dell’individualità e della ridefinizione del proprio spazio nel mondo, superiore anche al richiamo di appartenenza etnico-identitaria. Considerato un traditore dagli altri mussulmani detenuti, mai accettato dal gruppo dei corsi come socio alla pari, il protagonista del film di Audiard vive in una terra di mezzo che lo rende una scheggia impazzita, anche all’interno dei canoni consolidati del cinema d’ambientazione carceraria, che dal Siegel di Fuga da Alcatraz, passando per le trasposizioni dei romanzi di Eddie Bunker, approda all’Irlanda dei “bracci politici”. Il detenuto Malik non ha il chiodo fisso dell’evasione come Clint ad Alcatraz, non organizza rivolte o scioperi della fame. La sua zona di caccia e di conquista è il carcere, in cui si muove con l’agilità del predatore che non deve venire a patti con le logiche dal branco.
In questo studio avvincente di un carattere criminale che sembra uscito dalla penna di Jean Patrick Manchette, così scrupolosamente realistico e dotato al contempo di una fascinazione mitica tipicamente “di genere”, il profeta Malik, piega le dinamiche di gerarchia e sottomissione della società carceraria che ha introiettato, compresi i delicati equilibri dei marcatori etnici, ai propri scopi di ascesa sociale, incarnando così un prototipo d’uomo, quasi ad annunciare una nuova era.
Non si considerino soltanto l’opportunismo, la semplice sete di potere o di ricchezza come i motori dell’azione. Così come suonerebbe forzata una lettura politica in chiave di affrancamento di classe. La visione del profeta non è priva di coscienza. Malik ottiene ciò che vuole perché sa uscire dagli schemi, sovverte le regole del gioco, si appropria di lingue e saperi altrui. Il suo atteggiamento intimamente morale, se spostato da una scala individuale a una collettiva, destituirebbe dalle fondamenta le condizioni stesse di esistenza di qualsiasi cultura mafiosa. Come un novello Dillinger, Malik non è un sadico assetato di sangue ed è probabile che non ci si trasformerà in futuro, ove le sue attività criminali dovessero prosperare. Se è vero che cane mangia cane, per dirla con Bunker, è altrettanto vero che in Malik non c’è traccia di sindrome concorrenziale. Il profeta, saggio e guerriero, saprà circostanziare la sua forza e consolidare il potere, soprattutto se rimarrà fedele alla prescrizione coranica appresa proprio da colui che ha ucciso per primo: “Leggi! In nome del tuo Signore” Sura Al – 'Alaq 1/5.