di Fabrizio Funtò/ Questa volta Jim Jarmusch l’ha fatta grossa.
È entrato in quel territorio dell’ambiguità dove il giudizio finale è un rischio gravissimo per l’Autore. Ed è un rischio nel quale vorrei coinvolgervi con una domanda finale, essenziale. Dirimente.
Ma procediamo con ordine. Dunque: prendi un guidatore di autobus della cittadina di Paterson, che si chiama anche lui Paterson (e basta), e che guida un bus che esibisce un bel cartello “23-Paterson”. E già siamo un po’ nei guai. Scattano subito gli allarmi.
E’ lunedì, Paterson si sveglia al fianco di una bella moglie mediorientale, Laura, che si crogiola fra le quattro mura domestiche, ed i cui sogni sono banali, scontati. A Paterson (la cittadina) accade che vi siano molti gemelli. E quindi lei sogna non di concepire un figlio di Paterson (il marito), ma di concepire dei gemelli. Ovviamente. Ci fossero figli dalla pelle verde e squamosa, a Paterson, questo sarebbe stato il suo sogno, c’è da giurarlo.
Lui va al lavoro, e nei brevissimi istanti prima di “attaccare”, seduto al suo posto di guida dell’autobus, prima di salutare l’amico incasinato e controllore di corse Danny, appunta su un “taccuino segreto” poesie che a voler essere buoni rientrano nel minimalismo spinto. A voler essere oggettivi ed in linea con il paradosso di Jarmusch, sono di una banalità sconcertante. Ma sono il suo attimo di poesia, epperò di nessun afflato, di nessun valore, di nessuna profondità. Piccoli frammenti di una vita insignificante, banale, appuntati senza ritmo ne rima. Ma: “poesie”.
Come le scriverebbe una ragazzina di dieci anni, che incontra per caso, e dal cui “taccuino segreto” se ne fa leggere una ― altrettanto banale ― ma che ripete a memoria alla moglie durante una delle loro cenette sempre uguali, come se distillasse una perla di letteratura.
Durante l’insignificante giornata di guidatore, Paterson origlia i discorsi dei suoi passeggeri. E sono tutti atti mancati. Perfino due bulli, che sembrano tosti, e che cominciano a parlare di donne che ci provano con loro, anche spudoratamente (e tu speri che uno di loro parli inavvertitamente di una Laura seduttrice, almeno nel nulla accadrebbe un dramma per l’origliatore alla guida!) ― donne che quasi li trascinerebbero nel loro letto ― e invece no: loro vanno a letto presto, perché l’indomani si devono alzare presto. Quindi niente, non si scopa nemmeno (lo dico brutalmente per contrasto).
La storia è ciò che non accade. O meglio, essendo un film, Jarmusch sente che lo spettatore anela ad un “fatto”, a qualcosa che ― nello schema fondamentale della narrazione ― attivi l’eroe e lo metta in viaggio verso il proprio destino. Che venga rispettato il “rito” del cinema. E’ questo lo schema cui Jarmusch, con il suo paradosso annunciato subito dal doppio cognome-cittadina omonima, vuole fare lo sgambetto.
Ti aspetti una storia, un Godot qualsiasi, che non arriva mai. Vuoi l’azione, vuoi il dramma, vuoi un qualcosa che motivi il tuo stare lì per due ore a origliare anche tu cosa fanno i personaggi sulla scena? E allora il padrone della scena diventa l’atto mancato: il suo amico nel bar ― che dovrebbe fare una strage per amore, dovrebbe ammazzare tutti gli avventori e la fidanzata che lo ha mollato, per poi suicidarsi. Invece ha una pistola a tappi. Non succede nulla, e nulla avrebbe potuto accadere.
Quindi tu, che vai al cinema e ti aspetti una storia con fatti notevoli, con eventi, che paghi il biglietto per farti scatenare adrenalina nel sangue, che non vedi l’ora che qualcosa accada, sei in realtà uno dei personaggi di Jarmusch ai quali in sostanza non accade mai niente per l’intera settimana (che in Usa è l’unità di misura del salario, a differenza della mesata nostrana).
L’unico evento è il cane Marvin. Che il sabato sera, quando Paterson dovrebbe mantenere la promessa di fotocopiare il suo taccuino segreto (perché Laura lo possa proporre ad un editore per una eventuale gloriosa pubblicazione), lasciato da solo a casa lo frantuma a morsi. Il cane produce gli eventi salienti. Distrugge l’unica farfalla nella vita di Paterson (l’umano).
Ma comunque quelle poesie ― è Paterson che parla ― sono parole. Semplici parole. Legate al taccuino. Ricevuto in dono un nuovo taccuino, estrae il lapis e ricomincia. Ed è di nuovo lunedì.
È l’esistenza grigia e cupa della provincia americana, che oramai si salda con l’anonima buia esistenza dei milioni di lavoratori dei paesi a socialismo reale, quelli che una volta vivevano oltre cortina, e che da ragazzo sono andato a vedere a Berlino, a Budapest, a Praga. Un mondo vuoto e insignificante. Ed è anche forse il tuo mondo? Il tuo, di spettatore?
Jarmusch racconta una storia senza eventi. Quasi spinge lo spettatore a richiedere la droga di un fatto drammatico. E così facendo lo purga. Lo punisce. Lo frastorna con una ventata di insignificanza.
Verrebbe da dire, parafrasando un titolo della Arendt, la “banalità del bene”.
In letteratura abbiamo una vasta casistica di storie di “atti mancati”, anzi il filone è bello consistente. Per affinità geografica, vi cito solo un mirabile racconto di Nathaniel Hawthorne, che sembra essere il padre di questo non-racconto paradossale di Jarmusch: “Wakefield”.
E che contiene il paradosso del vivere/essere vissuti. Detto in due parole (ma Hawthorne è assolutamente da leggere, è la voce fuori campo per eccellenza della letteratura nordamericana): un oscuro e grigio funzionario concepisce una idea balzana che lo cattura e lo stravolge: come sarà la vita senza di me? In mia assenza? Cosa faranno i miei cari, mia moglie, i miei figli, i miei amici se dovessi venire a mancare?
È un rovello in sé stupido, che non dovrebbe porsi. Ed invece lo afferra dall’interno e gli prosciuga l’anima. Pertanto il funzionario Wakefield parte un mattino di buonora, con la sua carrozza, per un viaggio imprecisato di una settimana, saluta tutti e si dilegua. Non torna più. Prende in affitto un appartamento di fronte a casa sua, vi si installa, e comincia ad osservare la vita senza di lui. E passa vent’anni così. Vent’anni! A guardare cosa accade. A guardare la vita che scorre, e così facendo spreca la sua stessa vita. A guardare segretamente invecchiare sua moglie, e tutti gli altri che gli volevano bene. Lui è vivo ed al contempo è morto. Non vi leverò certamente il gusto del finale. Che è ancor più paradossale. Il fatto comunque è accaduto veramente, ed è tratto da una notiziola di giornale. Per dire come la realtà superi ogni immaginazione.
Ma la domanda di Hawthorne, quella che sgorga naturale dal cuore di moralista folle ― uno che fa scorribande nella follia e che quindi conosce benissimo le regole ed i limiti della morale civile ―è la stessa che rivolgo a voi.
Scusate: ma parlare di cose stupide, non è altrettanto stupido? Interessarsi di facezie e piccole inezie, non ci trasforma in imbecilli? E Jim Jarmusch, l’Autore, quando azzarda un film paradossalmente senza storia ed eventi, dove il protagonista segreto (oltre al cane Marvin) è il fatto mancante, cosa è secondo voi?
E se invece, Fabrizio provassimo a vederla da un’altra prospettiva? Da un punto di vista psicologico, per esempio. Paterson prova a dare una chiave di lettura poetica del mondo ma non riesce a uscire dal suo sé interiore. Vive in una realtà soggettiva dove non esiste nessun oggetto “esterno”. E’ il suo mondo interno che conta. Quello di un individuo che si protegge dalla “inutilità” di una vita mediocre ricostruendosene un’altra dentro di sé. E così facendo le dà dignità. La propria, certo. Fatti i dovuti distinguo, il suo assomiglia a un pallidissimo tentativo di un processo creativo. Decisamente inutile e autoreferenziale perché non comunica, non svela nulla del segreto delle cose, diresti forse tu. Ma per i più, ciò che importa è vivere dando un senso alla propria esistenza. Non fosse altro perché la banalità del bene ha una sua dignità che Jarmush ha deciso valga la pena di raccontare.
Jarmush afferma: “PATERSON vuole rendere omaggio a ciò che di poetico esiste nei piccoli dettagli, nelle variazioni e nelle interazioni quotidiane, e il film si propone come antidoto al cinema cupo, drammatico o incentrato sull’azione”.
Tu dai credito alla prima frase. Evidentemente io attribuisco maggiore importanza alla seconda.
Mi pare che a Jarmush converrebbe aderire alla mia interpretazione: c’è una certa grandezza anche negli atti mancati. Mentre nelle piccole cose quotidiane, nei dettagli, si nasconde solitamente il demonio triste.
Ti citerei un altro romanzo straordinario e sconvolgente sul tema, quello di Georges Perec: “La vita, istruzioni per l’uso”. Magnifica ed emblematica storia dove l’atto mancato è portato al parossismo. Alle estreme conseguenze e ti lascia un tale vuoto dentro… che ti viene voglia di traferirti subito a Paterson.
Una noia mortale! e anche disonesto, a mio avviso ad instillare il dubbio che in fondo sia tu a non riuscire ad entrare nella giusta prospettiva consolatoria