Mar Nero, primo lungometraggio del giovane regista fiorentino Federico Bondi, è stato presentato quest’estate alla 61esima edizione del Festival di Locarno e finalmente arriva in sala. Film sensibile, poetico e pieno di umanità ha conquistato il pubblico del festival ed è stato ricompensato con vari premi: il Leopardo d’Oro per la Migliore interpretazione femminile, attribuito ad Ilaria Occhini, il Primo Premio della Giuria Ecumenica e il Terzo Premio della Giuria dei giovani. Dopo Locarno ha partecipato alle Giornate del cinema europeo di Firenze (Settembre), al Festival del Cinema italiano di Villerupt dove ha vinto il Primo Premio (ottobre) e al Medfilmfestival (Novembre).
Il film ci racconta una storia quotidiana e universale al tempo stesso: l’incontro di Gemma, un’anziana vedova fiorentina, ostica, malata ed amareggiata con Angela, la sua giovane badante rumena. Il loro rapporto difficile e penoso all’inizio si trasforma lentamente in una bella amicizia che dà a Gemma di nuovo il gusto della vita inducendola a fare un viaggio coraggioso e meraviglioso verso la Romania. Il film, che si avvale delle interpretazioni magistrali delle sue protagoniste, Ilaria Occhini, nel ruolo di Gemma, e la giovane attrice rumena Dorotheea Petre, in quello della badante Angela, ci tocca e ci commuove offrendoci un soffio di speranza e di calore umano. Ho incontrato Federico Bondi per la prima volta a Locarno durante una gremitissima conferenza stampa in presenza di tutta la sua equipe fra cui le due attrici principali, il produttore italiano Francesco Pamphili e la produttrice rumena. Tra i flash dei fotografi, le dichiarazioni dei produttori e le molte domande che i giornalisti hanno rivolto specialmente alla “grande signora” del teatro italiano, Ilaria Occhini, il giovane regista non ha avuto l’occasione di prendere la parola a lungo. Passata la grande tensione del festival, ho potuto contattarlo di nuovo. Gentile e disponibile Federico Bondi ha parlato di sè e del suo lavoro durante una lunga e cordiale telefonata.
Quale è stato il tuo percorso professionale? Cosa ti ha condotto verso il cinema?
Io vengo dal documentario; sono nato come operatore-montatore e poi negli anni mi sono concentrato sul documentario. Nel ’98 ho girato Ora d’aria, il mio primo ed unico cortometraggio che mi ha dato molte soddisfazioni nei piccoli e grandi festival. È stato in concorso al Sacher di Moretti ed ha vinto vari premi. Era una storia tutta al femminile, di fatto omosessuale, una storia di dipendenza reciproca: una ragazza di colore si accusa di un omicidio che non ha commesso per potere tornare in prigione dalla sua ex-compagna di cella. È un corto di 13 min. che avrebbe potuto anche essere un lungo. Da lì in poi ho fatto solo documentari perché alla fine è la forma che più mi si confà, che più mi appartiene. Se non hai un’idea fulminante per una fiction é meglio il documentario. Fino a che non sono arrivato ad avere questa idea fulminante: un giorno stavo uscendo da casa di mia nonna dopo una visita e lì, pensando ad un dialogo fra lei e la sua badante, mi resi veramente conto che quella era una storia per il cinema.
Non ti è mai venuta la tentazione di filmare direttamente tua nonna?
Mi è venuta però ero sicuro che nel momento in cui avessi acceso la telecamera, mia nonna sarebbe diventata un’altra ed Angela, la sua badante, idem. Si sarebbe persa quella spontaneità, quell’emotività diretta che faceva proprio parte del loro rapporto e che lo rendeva magico. Con la camera accesa mia nonna non sarebbe più stata se stessa.
E l’idea di fare un vero e proprio documentario sulla tematica?
Io avevo già avuto modo di vedere una mostra fotografica itinerante sul tema: “Volti di badanti”, poi qualcuno mi aveva detto: “Sai c’è un documentario su una badante…” , questo comunque quando già stavo scrivendo il soggetto. Il vero motore del film è stata l’intuizione del viaggio in Romania, viaggio che è la metafora e l’apice di questo rapporto. È proprio per questa ragione che non ho voluto affrontare il soggetto in modo documentaristico. Nel frattempo mia nonna era morta. In un primo tempo volevo un’attrice non professionista ma questo avrebbe complicato le cose. In realtà l’avevo anche trovata ed era fantastica. Avevo già lavorato molto con lei. Alla fine il film non l’ho più fatto con lei, ma in Mar Nero c’è anche molto di questa signora anziana che si era entusiasmata ed aveva sposato in pieno il mio progetto. Dopo la vittoria di Ilaria Occhini mi ha mandato un messaggino che diceva: “Ti ringrazio comunque per la tenera illusione”. E’ stato proprio bello!
Quale è il messaggio, la cosa più importante che hai voluto trasmettere con questo film?
Il mio film è la storia dell’amicizia fra due donne sole. Sono due persone deboli ed emarginate che insieme, in questo sodalizio, trovano una speranza. Il presidente della giuria ecumenica a Locarno mi ha detto una cosa di questo genere: “Ti ringrazio per la speranza che ci hai regalato”. Ed è proprio questo: io volevo comunicare speranza.
La vita di Gemma sembra essere arrivata proprio alla fine: ha appena perso suo marito, è gravemente malata, il suo unico figlio abita in una città lontana, e invece non è vero; alla fine della vita c’è, malgrado tutto, ancora qualcuno che ti dà, che ha da darti e tu a tua volta dai, è uno scambio.
Che importanza ha avuto per te il momento della scrittura del film?
Per me la scrittura è stata un momento fondamentale: il lavoro più grosso l’ho fatto in sceneggiatura, nelle otto, nove, dieci stesure consecutive. Il film per me è lì. Se compari le cinque settimane di lavorazione e di riprese ai tre anni precedenti in cui mi sono occupato del soggetto, del trattamento, fino all’ultima stesura della sceneggiatura, c’è un divario enorme! Se non ci fosse stata quella sceneggiatura lì non ce l’avrei mai fatta a girare il film in cinque settimane.
Dalla fotografia, alla scenografia, al vestiario hai scelto delle tonalità dominanti grigio e pastello molto suggestive. Cosa ha motivato questa tua scelta?
Tutto è nato dal primo sopralluogo che ho fatto in fase di trattamento andando a Sulina, sul delta del Danubio in Romania. Io volevo girare durante l’inverno perché questo è un luogo che per me col sole ed in estate perde completamente il suo fascino. Queste atmosfere chiaroscurali, crepuscolari, sotto tono, rendono magico questo luogo da cui, nel film, proviene Angela. Tutta quest’acqua, questi orizzonti equorei, acquosi, nordici mi trasmettono in un certo senso quiete, pace, calma. Angela è portatrice di quiete, di pazienza.
Questi colori morbidi e tenui, rappresentano dunque piuttosto la quiete di Angela che la vecchiaia di Gemma.
Sì è così, però Gemma è pronta a riceverli.
Utilizzi spesso dei piani-sequenza quando filmi le due protagoniste. Potresti spiegarmi questa tua scelta?
Io volevo adottare una forma il più possibile semplice, immediata. Volevo centrarmi sull’essenza drammatica della scena e sull’interpr
etazione degli attori e lasciarli liberi il più possibile. Sia il piano sequenza che il fatto di girare in digitale lascia effettivamente agli attori molta libertà di movimento. L’uso del piano sequenza è dettato proprio dalla volontà di concentrarsi sul dramma, sul rapporto fra le due donne e di farlo in maniera semplice e diretta. Se ami questo mestiere è chiaro che all’inizio la tecnica ti affascina: in questo senso il mio primo cortometraggio di cui ti parlavo prima era un vero e proprio esercizio di stile. In Mar Nero volevo, in un certo senso, “liberarmi” anche se, ed è ovvio, ci sono dei riferimenti e delle influenze come quella dei fratelli Dardenne.
Il trattamento dello spazio nel film ha spesso una qualità teatrale.
Lo spazio scenico nel film è di fatto di una semplicità disarmante. Nell’appartamento la camera di Gemma è a sinistra, quella di Angela è a destra e nel centro c’è una stanza comune che è la cucina dove le due donne si ritrovano. Effettivamente in questo tipo di scenografia c’è molto teatro, teatro che poi si ritrova anche nell’interpretazione di Ilaria Occhini.
Come hai lavorato con gli attori?
Per quanto riguarda il personaggio di Gemma io avevo il riferimento di mia nonna: quando sentivo che il “falso” era “falso” e basta, allora portavo la Occhini altrove. Ma a volte sentivo che il “falso” era in grado di dare un’idea del vero più vera del vero stesso e la lasciavo libera nella sua interpretazione. Mia nonna era di per sè un personaggio “teatrale”, metteva in scena se stessa e la Occhini lo fa magistralmente, cioè recita la scena di chi non vuole un’estranea in casa con grande convinzione.
Il dialogo “impossibile” fra Ilaria Occhini che parla solo italiano e il padre di Angela, Theodor Benetti che parla solo in rumeno è, per me, uno dei momenti più belli del film.
Lui è veramente straordinario se pensi che è mezzo cieco e mezzo sordo!
La descrizione del viaggio in Romania è piuttosto evocativa, giochi molto sull’ellissi: non è molto chiaro cosa sia successo con l’uomo di Angela, perché i due si rimettono insieme, in che termini la donna riparte per l’Italia, tutto è più accennato che spiegato. Perché?
In questa parte del film è come se accadesse una specie di cambio di “testimone”. C’è un cambio di punto di vista nel corso del film: io inizio la mia storia con Angela. Di fatto se tu avessi potuto leggere le stesure precedenti della sceneggiatura avresti visto che c’era proprio un’introduzione in cui si vedeva Angela lavorare in Sicilia prima di arrivare a Firenze. Poi questa parte è stata tagliata dalla produzione e da me pure, perché mi sono reso conto che dovevo farlo. Io iniziavo con Angela, Angela era la protagonista, e poi arrivavo a Gemma. A partire dalla metà del film in poi il punto di vista cambia e diventa quello di Gemma. Nel momento in cui arriviamo in Romania, a Sulina io sto con Gemma, in casa. A me non interessavano le storie che si svolgono all’esterno; nè quella dell’amante del marito di Angela, nè quella di sua sorella. Io volevo seguire l’evoluzione del personaggio di Gemma. A Sulina, in effetti, Gemma é rinchiusa in una stanza, aspetta e apprende solo a brandelli quello che succede ad Angela.
La “presenza” dei fiumi attraversa tutto il film: dalla prima sequenza che si apre con un lunghissima carrellata laterale sull’Arno, al fiume che compare durante il film nei ricordi di Angela fino alla fine dove si vede il Danubio.
Nel film ci troviamo in un luogo situato sul delta del Danubio che in questo punto consta di migliaia di diramazioni e di canali e di un ramo centrale che passa appunto per Sulina, il Mar Nero è a pochi chilometri di distanza. Siamo proprio alla fine di questo fiume enorme che attraversa ben sette paesi. Anche i personaggi ne parlano di questi fiumi come nella scena in cui Gemma, in preda a dei dolori notturni, si rifugia in cucina. In quest’occasione Angela le racconta che suo marito Adrian si alza anche lui alle cinque del mattino per andare a lavorare in barca: il suo tragitto sul fiume è di un’ora e mezza all’andata e un’ora e mezza al ritorno. Durante questo dialogo si apre anche il primo vero spiraglio fra le due donne. Gemma comincia ad incuriosirsi a questa storia delle barche e del fiume tanto che in seguito porterà Angela a vedere l’Arno. È un elemento questo dell’acqua che rappresenta il fluire della vita e che allo stesso tempo trasmette pace, quiete, calma, pazienza.
Il titolo del film è Mar Nero ma noi il mare non lo vediamo mai! Eppure non ce se ne rende subito conto di questo paradosso perché il titolo funziona perfettamente ad un livello metaforico.
Il titolo è emblematico in questo senso. Angela è come un mare, come un’onda per Gemma, ma allo stesso tempo nel titolo c’è anche la parola “nero” che rimanda alla morte e alla vecchiaia. Guarda caso c’è un altro film con questo titolo: Mar Nero di Roberto Torre, un film di un paio di anni fa che, fra l’altro, fu stroncato a Locarno, per cui ci fu tutta una lunga discussione con la produzione e Rai cinema che me lo volevano far cambiare. Io mi sono impuntato, volevo questo titolo: il film è nato così. Mar Nero mi ha portato fortuna e spero che me ne porti ancora.
Il tuo film è esteticamente molto coerente. Quali sono le referenze cinematografiche che ti hanno influenzato nella realizzazione di Mar Nero?
Mi interessa parlare dei riferimenti che mi hanno influenzato in fase di scrittura, per il resto, per quanto riguarda la direzione degli attori era quella dell’immediatezza, della semplicità, dell’essenzialità, della forma senza sovrastrutture. È chiaro che la cifra del film è realista: un realismo che poi appunto si intreccia col teatro. In questo senso Rossellini è per me un riferimento importante. Per il resto direi forse Lars von Triers e, come ho già accennato prima, i fratelli Dardenne. In preparazione c’è stato un piano di regia rigido che dovevo avere per forza, se no non ce l’avrei mai fatta, mai e poi mai. Questo sicuramente mi ha aiutato molto nel descrivere questa storia di “sacrifici” perché è un sacrificio che Angela fa stando ventiquattr’ore su ventiquattro con questa anziana, per mettere da parte i soldi per potere avere un figlio.
Come hai vissuto l’esperienza di Locarno, i premi, ti aspettavi di più, di meno?
In realtà non mi aspettavo neanche di andare a Locarno, per me esserci stato è già stata davvero una vittoria. Per quanto riguarda i premi avrei voluto un ex-aequo tra Dorotheea Petre e la Occhini; questa è stata per me una cosa un po’ spiacevole. Dorothea proviene dal cinema e possiede una naturalezza eccezionale. Giuro che non c’è stato neanche un ciak in cui lei abbia sbagliato una reazione, è un’attrice strepitosa.
Quale è stata la reazione del pubblico al festival?
Sono stato molto contento in questo senso, soprattutto della proiezione che abbiamo fatto nella sala del Fevi; il cinema era gremito, stracolmo come per nessun altra proiezione, mi hanno detto, e la risata arrivava sempre nel momento giusto. È
stato perfetto! Minuti e minuti di applausi, proprio bello! E poi ci sono state anche molte reazioni positive da parte dei giornali.
I tuoi progetti futuri?
Mi è nata una bambina tre mesi prima dell’inizio del film, vorrei dunque stare un po’ con lei. Magari, tenendola in braccio, mi viene qualche idea!