Vedere, per di più ad un giorno di distanza l’uno dall’altro, due film che raccontano la coppia in maniera speculare e opposta sia dal punto di vista estetico che da quello narrativo può suscitare uno strano effetto di stordimento,un corto circuito nella visione e nella riflessione su un argomento quantomeno abusato e consumato dal cinema, in grado comunque e sempre di far vibrare corde profonde,dalla più consolatoria e rassicurante chimera di salvezza e guarigione al più brusco risveglio in una valle di lacrime.
La specularità de Il lato positivo e Blue Valentine si è manifestata, tra l’altro, anche nel destino distributivo che hanno avuto all’interno del circuito cinematografico nostrano, strettamente legato all’impronta differente che segna queste due pellicole: Se il primo,diretto da un regista eclettico, di solido mestiere e in continua ascesa come David O.Russel, esce in pompa magna,sull’eco della trionfale accoglienza negli USA, plurinominato agli Oscar e con la vittoria di Jennifer Lawrence come miglior attrice,il secondo, opera prima di Derek Cianfrance, arriva invece a tre anni di distanza dall’uscita americana, lanciato senza troppa convinzione il giorno di San Valentino e,nonostante la presenza di due divi giovani,belli e bravi come Ryan Gosling e Michelle Williams(oltretutto candidata all’Oscar,ma nel 2011),scomparso abbastanza velocemente dalle sale di prima visione.
In teoria sulla carta, sia metaforicamente che letteralmente, è proprio Il lato positivo (titolo cinematografico sacrificato alla poesia dell’originale letterario) a presentarci la coppia più forte, disturbante ed estrema, essendo tratto dal romanzo L’orlo argenteo delle nuvole di Matthew Quick. Pat e Tiffany, i due disadattati affetti da una forma di sindrome maniaco-depressiva che potremmo definire come disturbo bipolare (ma il film si guarda dal formulare diagnosi o dare spiegazioni scientifiche più precise), dovrebbero appartenere a quella casistica di relazioni che si creano e che in qualche modo vanno avanti, costruendo una loro (in)stabilità nonostante tutto: Pat infatti è appena uscito da un istituto psichiatrico dov’era rinchiuso per aver picchiato a sangue l’amante della moglie(dopo averli sorpresi fare sesso dentro la doccia) e si muove tra un’euforico, ottimistico desiderio di riconciliazione e riscatto e il disperato affondo nei demoni della rabbia e dell’ossessione; Tiffany si porta addosso la ferita fresca e profonda della morte del marito per un banale incidente stradale, e l’espressione di questo dolore troppo grande per la sue spalle fragili attraverso un’incontenibile promiscuità sessuale e una dura schietezza nell’approccio alla vita. Entrambi vivono poi in contesti familiari in cui la radice delle loro patologie sembra destinata a crescere al quadrato,fino al parossismo,al grottesco deformante della normalità casalinga.
Cosi Pat è sballottato tra l’ansia protettiva e un po’ manipolatrice di una madre morbida fino al soffocamento e l’amore possessivo, prepotente, brutale di un padre smarrito dentro le sue manie ed ossessioni con una violenza non tanto lontana da quella del figlio, mentre per Tiffany basta affrescare il ritratto di una sorella incorniciata nel mostruoso ritratto della borghese di provincia che reitera il suo castrante iper controllo anche su un marito passivo e vigliacco.
La “carta” era dunque straripante di carne al fuoco, di un potenziale esplosivo per implicazioni psicologiche, emotive, l’opportunità di andare veramente in profondità nell’analisi di un disagio non più represso, che emerge dal fondo di una società come quella americana, fortemente strutturata e organizzata in classi, ruoli, gruppi di appartenenza, dove viene percepito come minaccioso l’essere vulnerabili, scoperti, mettersi in gioco (e, qui simbolicamente, l’affermazione del sé passa attraverso il ballo come giocosa libertà del corpo) perchè stravolge le regole dell’ordine costituito e ridefinisce tutti i confini. Il contenuto della storia e le possibili considerazioni non corrispondono però alla resa cinematografica che, prendendo come orizzonte il senso semplificato del titolo italiano, si concentra sul lato esteriore e ottimistico, virando ben presto dall’iniziale tono grottesco e doloroso, come dimostra la scena in cui Pat in un accesso d’ira aggredisce il padre e la madre, alla dimensione della commedia romantica, l’addolcimento zuccheroso di una medicina troppo amara. L’incontro con Tiffany non ci mostra tanto due esseri umani in grado di comprendersi profondamente e quindi di salvarsi l’uno con l’altra, quanto la solita coppia del tipo “in realtà si amano, ma se lo diranno solo alla fine”, ravvivata da una patina superficiale di eccentricità e situazioni sopra le righe, giustificando tutte le azioni e i comportamenti in virtù della lieta conclusione e non di una reale, gratuita solidarietà reciproca.
Questo senso di strumentalizzazione, di manipolazione arriva ancora più potente e fastidioso dall’immagine finale in cui si celebrano i due piccioncini inquadrati nella più tradizionale e normalizzante cornice della famiglia che, in nome dell’amore, viene assolta da tutti i suoi peccati e le sue storture. Anche gli aspetti estetici appaiono esteriori, formali, tesi a creare un effetto di dinamismo ed energia, con una regia fatta per lo più di zoom e carrellate e un montaggio rapido e aggressivo nel voler restituire le accelerazioni e le digressioni di Pat e Tiffany, lasciando l’impressione di aver assistito a una lunghissima strizzata d’occhio con annessi tic.
Se lo sguardo su questo mondo appare dopato, gonfiato dagli steroidi di un’ideologia da happy end, la distanza in Blue Valentine è segnata immediatamente dall’impatto estetico: immagini spoglie e dimesse, luci fredde, spazi e tempi vuoti in cui una latente intensità è sempre sul punto di esplodere.
Eppure i punti in comune con il microcosmo raccontato da Il lato positivo non mancano: la stessa ambientazione in un sobborgo piccolo borghese, la famiglia che può diventare luogo di oppressione e incomunicabilità, la coppia come nucleo in cui si consuma la schizofrenica tensione a salvarsi, oppure a distruggersi. Al contrario di Pat e Tiffany, Dean e Cindy non hanno nessun effetto speciale, nessuna urlata, dichiarata patologia, ne programmatiche possibilità di redenzione o di riscatto.
Semplicemente una coppia filmata nei poli estremi di una relazione, l’innamoramento e la separazione, due momenti che si toccano continuamente nel tempo del racconto, dove la tenerezza e la spontaneità della reciproca attrazione e del bisogno di calore rendono ancora più livido, amaro e doloroso il distacco, la consapevolezza della differenza, la necessità di staccarsi da un abbraccio per ricavare lo spazio in cui respirare.
Il bivio in cui Il lato positivo e Blue Valentine si incrociano per poi prendere direzioni differenti sta proprio nella definizione dei personaggi e dei loro movimenti: Pat e Dean, più fragili, vulnerabili, infantili delle loro
compagne di viaggio, si avvicinano a Tiffany e Cindy, intravedendo una possibilità di salvezza o, nel caso di Dean, sradicato e vagabondo, l’istintiva, quasi animalesca necessità di appartenere ad un luogo fisico ed emotivo.
Ma se l’abbraccio in cui sprofondano Tiffany e Pat, pur apparentemente salvifico, possiede un disturbante retrogusto di confinamento, di limite, il movimento che separa Cindy da Dean è l’immagine che libera dall’oppressione della violenza e del ricatto familiari.
Il coraggio di una scelta estetica ed etica con cui Derek Cianfrance ci ricorda che a volte il cinema, come la vita, non ha un solo possibile finale, ma tanti percorsi, deviazioni, ripensamenti.