Difficile, se non impossibile, fare un film su Leopardi, come su tutto quanto appartiene ad una memoria condivisa ma non visualizzata. Difficile, diceva Fassbinder (e non solo lui) è realizzare la trasposizione cinematografica di un romanzo famoso perché ognuno di noi, leggendolo, lo ha visualizzato in maniera differente e non potrà che essere deluso quando si trova ad affrontare la visione del regista. Ben più difficile è trasporre sullo schermo la poesia, nella sua forma tra le più alte della cultura internazionale di tutti i tempi (sbilanciamoci, via) e ad opera di un personaggio di cui sappiamo tutto e niente, e dalle caratteristiche fisiche pericolosamente inclini al grottesco.
Diciamo subito che Mario Martone ha fatto un film su Giacomo Leopardi, non sulla poetica di Leopardi, e questo è il suo merito. Dopo anni di studio e di preparazione, ha realizzato un’opera che indaga prima di tutto l’uomo Leopardi, la sua formazione affettiva e familiare, prima che erudita e accademica, esplora con occhio affettuoso il natìo borgo selvaggio e tratteggia con dolore il continuo scontrarsi delle pulsioni adolescenziali del giovane conte con i rituali familiari, sociali, politici e religiosi della bigotta area sottoposta a dominio dello Stato della Chiesa. Una vita non del tutto infelice, malgrado lo studio matto e disperatissimo, perché circondata dagli affetti familiari, dei fratelli Carlo e Paolina e soprattutto del severissimo Monaldo che viene finalmente rivalutato nella sua figura di padre duro ma affettuoso dopo essere stato uno dei personaggi più odiati dei manuali di letteratura del liceo da parte di adolescenti fisiologicamente piuttosto inclini al parricidio. È invece la madre Adelaide Antici a rappresentare il corto circuito emotivo e affettivo del figlio con la sua bigotta e crudele indifferenza, magistralmente tratteggiata in poche e contratte sequenze, anche grazie all’interpretazione di Raffaella Giordano (danzatrice e coreografa prima che attrice).
L’uomo Leopardi è dunque al centro dell’opera, uomo in senso propriamente materiale con la sua fisicità sempre più sofferente, sempre più ingabbiato nella deformità (anche un po’ eccessiva, forse) del suo corpo che si avvia dolorosamente verso lo sfacelo insieme all’ambiente napoletano dei suoi ultimi anni, infettato dal colera e allo stesso tempo sensuale, vivace, ridente (“dicono i poeti che la disperazione ha sempre sulla bocca un sorriso”, citiamo a memoria dai tempi del liceo). Un corpo imploso, si potrebbe dire, attraversato come da scariche elettriche dalle collere sognate della ribellione al padre e dallo spirito sempre più caustico e rabbioso con cui risponde ai suoi contemporanei, difendendo il diritto a riconoscersi infelice nel secolo delle magnifiche sorti progressive. Proprio per questo a convincere meno è il tentativo di rappresentare l’infelicità amorosa di Leopardi, bidimensionalmente schiacciata ad occhieggiare dalla finestra Silvia (un po’ troppo scollacciata, anche se era la figlia del cocchiere) e ad inseguire per le stanze dei palazzi fiorentini Fanny Targioni Tozzetti, che invece gli preferisce l’amico Ranieri. Al di là della veridicità storica del triangolo amoroso, che peraltro non ci risulta, tutta la parte centrale ambientata a Firenze si ripiega inspiegabilmente sul Leopardi rifiutato, con il cuore spezzato, che corteggia goffamente la femme fatale che forse comprende anche il suo genio ma certo non si vede perché debba rinunciare all’aitante Ranieri. Belloccio, sciupafemmine, amico affettuoso, nel tratteggiarlo tra l’anonimato e la caricatura, avrà forse voluto Martone vendicare tutti coloro che non hanno perdonato al Ranieri di essere stato a contatto con uno dei più grandi geni di tutti i tempi e nelle sue memorie di non essere stato in grado che di raccontare che Leopardi era goloso di dolci e non si lavava?
Realizzato sotto forma di trittico, Il giovane favoloso scandisce senza una precisa logica temporale l’esistenza di Leopardi, con un’ellisse di dieci anni in una vita che non è stata troppo lunga. L’infanzia e la giovinezza nell’apollinea Recanati, sospesa tra il carcere della biblioteca e l’ebbrezza del precipitare in sé nella natura. L’incontro con il mondo tra Roma e Firenze e le sue speranze deluse, di fama e di amore. La dionisiaca discesa agli inferi tra i miasmi di Napoli (mai così bella nella rappresentazione scenografica di chiara matrice pittorica) e il suo desiderio pagano di infinita vitalità. Punteggiano la vicenda alcune “visioni” più di Martone che di Leopardi, coraggiose proprio perché rischiose, come la titanica visualizzazione della natura matrigna e l’episodio del bordello nei bassifondi.
Più difficili e non sempre riusciti sono i tentativi di inserire i testi poetici, tentazione praticamente irresistibile a cui si poteva forse resistere o almeno risolverli in maniera diegetica, magari attraverso una lettura diretta dei versi. La creazione spontanea e quasi estatica con tanto di disco lunare appeso fuori dalla finestra o la vertigine emozionale davanti all’ermo colle ci riportano alla mente il tenentino esaltato dalle proprie brutte poesie causticamente preso in giro da Tonio Kröger. Il poeta, val forse la pena di ricordarlo, è anche un mestiere, non solo una continua illuminazione divina. Meglio allora l’uso più esplicitamente cinematografico della voice over finale in cui La ginestra torna ad essere la metafora della condizione umana in un universo dove a galleggiare nell’universo è proprio la terra, l’aiuola che ci rende tanto feroci.
Recensione interessante. Condivido le riserve sulle scene delle poesie. Intensa invece la parte che narra l’amicizia con Giordani.
Ottimo l’uso delle musiche.