di Fabrizio Croce/Mercoledì 20 marzo alle ore 20 al Parco della Cellulosa in Via della Cellulosa 132, nuovo appuntamento con il cinema di “Appunti ritrovati della buona scuola” : Ilfiglio di Jean Pierre e Luc Dardenne.
Fin dal prima inquadratura, non sembra esserci scampo per Olivier, il protagonista de Il figlio, probabilmente il più radicale e germinale film dei fratelli belga Dardenne, Jean Pierre e Luc, che negli anni a cavallo tra la fine dei ’90 e il primo decennio del 2000, ridiedero nuova linfa e vigore a quel cinema, che seguendo la lezione del neorealismo italiano , ha cercato caparbiamente di indagare e comprendere la realtà , partendo dalla sua basilare e nucleare osservazione. Non c’è scampo, dunque, per Olivier che ha la mdp/ sguardo degli autori attaccato sul suo corpo, sulla sua divisa da falegname, su quella fisicità e su quel volto da uomo comune( l’attore è Olivier Gourmet, premiato a Cannes, capace di raccontare tutto l’arco di un vissuto con impercettibili microespressioni) : lo troviamo quasi schiacciato dentro la falegnameria di un centro dove insegna a minorenni appena usciti dal riformatorio il reinserimento all’intero della società tramite l’apprendimento di una professione. Appare concentratissimo, preciso, attento, di poche parole. Eppure già si sente, fin dal primo assedio degli occhi Dardenniani, un affaticamento, un’intensità quasi soffocante, la sensazione che qualcosa è accaduto o sta per accadere ….
Come per Rosetta, il celebrato film precedente , si scavalca la dimensione spazio-temporale del racconto cinematografico, e ci si appropria di un’esperienza che sembra compiersi in presa diretta, con tutta l’imprevedibilità che la realtà, assorbita e fatta asse portate intorno a cui ruota il linguaggio dei Dardenne, implica e impone . Ed è proprio estremizzando il movimento di aderenza al tempo e allo spazio nel loro manifestarsi , che avviene un’immersione talmente profonda da far contattare il senso ultimo di un comportamento e di una scelta . Il continuo , corpulento spostarsi di Olivier , con un ritmo dotato del prezioso dono della lentezza nelle pause e nelle attese come nei silenzi, si produce sempre in orizzontale , all’interno degli ambienti che abita,nella difficoltà di trovare una posizione, di mettere a placare un’inquietudine, una rabbia, una disperazione sottotraccia che è presente e palpabile sullo schermo, e che mantiene chi guarda in una tensione costante, anche se in quel momento non sta avvenendo nulla di rilevante dal punto di vista narrativo.
I Dardenne qui epurano completamente qualsiasi idea di costruzione o artificio , se c’è un climax nel racconto questo è identificabile nella totalità della messa in scena, che lascia intendere non solo e non tanto gli avvenimenti che hanno portato alla dinamica tra i protagonisti( Olivier prende come allievo nella sua officina di falegnameria Francis, il ragazzino che alcuni anni prima, nel tentativo di rubargli l’autoradio, gli aveva ucciso il figlio strangolandolo): Lui sa chi è quel ragazzo , ne riconosce il nome dal certificato di ammissione , e intenzionalmente decide di entrare nella sua vita davanti al naturale sbigottimento della ex moglie che , in procinto di risposarsi e di nuovo incinta, sembra essersi liberata di quel trauma , ma che di fronte alla riapparizione in carne e ossa, nel qui ed ora del memo vivente di una tragedia non elaborata, perde il controllo e sviene proprio tra le braccia dell’ex marito. Una sequenza, solo fisica, che imprime il segno dell’ineluttabilità di certe gabbie e certi legami , in cui la coppia divisa dalla perdita , si ritrova per un attimo in un abbraccio di muta comprensione per un dolore impenetrabile ed esclusivo. E rimanda alla maestria dei registi per averceli presentati, nella prima scena in cui lei lo va a trovare per annunciargli che sta cominciando una nuova vita, come due conoscenti alle prese con la dissimulazione dell’imbarazzo attraverso una formale e pudica cordialità. “Chi credi di essere?” , sussurra ancora la donna , una volta ripresa dal malore per l’incredulità di fronte all’uomo che ha deciso di prendere sotto la sua ala protettrice l’ assassino di loro figlio .Ed è una domanda che, a questo punto, lo spettatore fa propria: chi crede di essere quest’individuo laconico e silenzioso, e quali solo le sue intenzioni nei confronti del gracilissimo ragazzino del quale si fa fatica immaginare che abbia avuto la forza per strangolare un altro ragazzino? Quando arriva la vera rivelazione , in cui Olivier dice al ragazzo, dopo essersi fatto confidare il suo reato con la promessa di diventarne il tutore, di essere il padre del bambino che ha ucciso, esplode la dinamica di quell’ (im)possibile avvicinamento : vanno in tilt tutti gli schemi ,le identità , le traiettorie; I corpi di Olivier e del ragazzo si muovono per la segheria , si sfuggono, si inseguono, si assalgono nel tentativo, disperato e vitalissimo , di condividere i pesi di una sofferenza e di una perdita che li accomuna .
Il volto di quel ragazzetto biondo, spavaldo eppure imbarazzato, aggressivo eppure impaurito , resta uno degli strumenti più toccanti con cui i Dardenne hanno toccato le corde della compassione e della pietas. Olivier assolutizza il suo dolore e compie un gesto inconcepibile di fronte a un ‘Umanità travolta e imbarbarita dall’esercizio della legge del taglione, della violenza che genera violenza, dalle ferite sanguinanti infettate dalla cenere del rancore. Si spezza il cerchio ineluttabile e apocalittico della dimensione del “Borghese piccolo, piccolo” di Sordi / Monicelli e cosi com’era per lo sventato suicidio di Rosetta di fronte alla miseria e alla solitudine, per la fuga utopica di Lorna dallo sfruttamento e dall’abuso, per la determinata corsa contro il tempo (Due giorni , una notte) di Sandra contro il licenziamento suo e altrui, il gesto cercato e fissato nella sua essenzialità si trasfigura in una nuova etica delle relazioni e, in senso più ampio, in una più altruista e solidale concezione di comunità.
Olivier può attraversare e oltrepassare la sua sofferenza solo riscattando l’esistenza di Francis nella trasmissione di un sapere e di una conoscenza che per altro riporta al concetto fondamentale di seme (Per fare un albero, ci vuole un fiore cantava un poeta che sapeva vedere l’Universale nel particolare come Sergio Endrigo ….) .Laici e lucidi, i Dardenne non si affidano alla consolazione, spesso egoica , del perdono, ma battono il sentiero più impervio del calarsi nelle contraddizioni di tutto ciò che umano, per decifrarne il mistero , senza dare spiegazioni o trarre morali. Olivier e Francis esistono insieme, in quell’inquadratura, mentre caricano la legna sul camion, e possono comprendersi per il tramite di uno sguardo, il loro, quello dei Dardenne e anche il nostro che abbiamo scelto di credere in una cinema della possibilità, e non del limite.