[**1/2] – Più furbo che poetico Il concerto è un’operazione ammiccante ma non priva di importanza. Racconta la condizione degli ebrei nei paesi ex comunisti, il loro isolamento sociale e culturale. E lo fa sciegliendo una formula cara al regista, il rumeno Radu Mihaileanu. Formula vincente visto che lo spinse nel 1998 al successo internazionale con quel Train de vie che, infilandosi nel solco tracciato l’anno prima dal nostro Benigni con La vita è bella, provava a fondere tragedia e commedia individuando attraverso la favola una luce nelle profonde tenebre della Shoà. Riderci sopra, dissacrare, ma soprattutto mostrare che gli ebrei alla fine ce l’hanno fatta, e che neanche il più barbaro sterminio della storia è stato in grado di piegarne l’umorismo. Il film riuscì a ottenere premi, buoni giudizi della critica e incassi ragguardevoli ed evidenziò la propensione autoriale dell’ormai cinquantenne regista.
Nel 2005 Mhaileanu torna nelle sale con Vai e vivrai. Film dagli accenti biblici che racconta attraverso la storia di un bambino africano l’esodo degli ebrei etiopi verso lo Stato d’Israele per salvarsi dalla devastante carestia che colpì l’Africa alla metà degli anni ottanta. In questa pellicola il regista abbandona il registro della commedia spingendo sul dramma storico. Opera quantomeno discutibile per i limiti di un impianto ridondante e di una sceneggiatura marcatamente didascalica. Con Il concerto Mihaileanu torna all’antico utilizzando lo stesso schema proposto in Train de vie e ponendo al centro del film un tema presente anche nei due precedenti lavori citati: spogliarsi della propria identità (religiosa, etnica, sociale), assumendone una falsa per poi riappropriarsi dell’identità primaria concepita nella sua essenza.
Il concerto inizia dove Train de vie finiva, in Russia. Nel film del 1998 un gruppo di ebrei, per sfuggire all’invasione di Hitler metteva in scena una finta deportazione comandata da ebrei stessi travestiti da nazisti. Nel finale la scalcinata banda riusciva tra pericoli e traversie, ad approdare alla salvezza (in Unione Sovietica). Il legame ideale tra i due film scaturisce dalla volontà di Mihaileanu di raccontare e denunciare la condizione degli ebrei oltre la cortina di ferro rivelando la sostanziale equità di trattamento riservatagli dai tedeschi. Deportazioni, lager, emarginazione, esclusione dalla vita pubblica erano il destino degli ebrei anche nei paesi comunisti.
La storia ha come protagonista Andrei Filipov che, dopo trent’anni di inibizione (ora lavora come addetto alle pulizie) da parte del regime all’epoca di Breznev ha di nuovo l’occasione per tornare a dirigere la sua prestigiosa orchestra del Bolshoi. Raccoglie un gruppo di musicisti più o meno improvvisati e parte alla volta di Parigi fingendo di essere il direttore tanto atteso in città. L’equivoco è il punto di partenza che dà il via a una successione di situazioni grottesche spinte fino al parossismo componendo una rappresentazione dell’assurdo che diventa la chiave con la quale Mihaileanu si prende gioco del potere, delle vecchie nomenklature ma anche dei nuovi oligarchi russi. A Parigi, tra le varie avventure animate dalla immancabile vivacità slava, che in Train de vie trovava il ritmo delle musiche di Goran Bregovic, Filipov riesce a dirigere Caijkovskij al Théâtre du Châtelet. Il regista rumeno dirige invece una sinfonia che conosce molto bene e che a tratti dà l’idea di orchestrare furbescamente. Si ha l’impressione che spingendo certi tasti dell’emotività Mihaileanu arrivi allo scopo (commuovere e divertire) utilizzando facili scorciatoie. Ma forse è solo un’impressione.