di Fabrizio Croce/ I film di Asghard Farhadi hanno il coraggio, espressivo e narrativo, di comunicare con l’intelletto e con le emozioni dello spettatore che è chiamato ad essere presente, a riflettere e a sentire, a prendere una posizione etica, psicologica ed emotiva nei confronti delle storie e dei personaggi che filma: un piacere del racconto finalmente svincolato dalla gabbia dell’intrattenimento affabulatorio e consolatorio ma che lascia in chi guarda, pur avvinto e catturato dagli accadimenti, un senso di disagio e disorientamento e la necessità di dare una lettura e un’interpretazione di ciò a cui si è appena assistito, senza la rete di salvataggio di un’idea o di un sentimento precostituiti. Il ruolo dello spettatore ha un dichiarato ed esplicito valore in quest’ultimo Il cliente, traduzione assai impropria del persiano Forushande ovvero il venditore (molto più evocativo e meno didascalico, in rapporto alla trama, del titolo italiano) visto che si apre sulle immagini della scenografia in allestimento di uno spettacolo teatrale, cornice apparentemente stridente con il pedinamento realistico a cui assisteremo successivamente, eppure metafora precisa e artigianale del confine tra vita e rappresentazione, di quanto la seconda sia una rappresentazione della prima e ne sveli e illumini degli aspetti inediti e sconcertanti.
Emad e Raana appartengono al ceto medio della Teheran di oggi, entrambi attori, lui anche insegnante di letteratura in un liceo, una coppia che si presenta aperta, emancipata e molto innamorata: questo legame è messo alla “prova”, con un altro raffinato simbolismo, dalla prima sequenza dalle mura crepate del palazzo in cui vivono, crollante sotto i colpi di una ruspa che scava e mina le fondamenta del concetto di casa, famiglia, sicurezza.
Un collega del teatro propone loro quello che, in questo gioco di specchi e apparenze, sembra un affare, ovvero una casa in un bel quartiere, con molto spazio, un prezzo conveniente e un solo punto interrogativo: la camera chiusa a chiave che contiene gli oggetti della precedente, misteriosa inquilina, la quale tarda a venirli a ritirare, innescando, dall’immagine di una porta chiusa e del suo possibile contenuto, il tarlo del sospetto e dell’incertezza sulla sua identità. Poi, come in Niente da nascondere di Haneke, il “mistero” si sposta dall’identità di chi ha messo in moto il processo, in quel caso l’autore dei video che perseguitano la cattiva coscienza di Daniel Auteuil, alla conseguenze sulle dinamiche tra i personaggi coinvolti e travolti dalla spirale dei fatti che ne conseguono. L’aggressione in casa subita da Raana da parte di un uomo sconosciuto in qualche modo collegato alla precedente inquilina, e ci fermiamo qui nel racconto per non privare l’esperienza dello spettatore di quel crescendo di tensione e di curiosità da whodunit? (chi è stato?) indispensabile per essere ricettivi rispetto alle questioni più profonde e disturbanti che questo film pone, innesca a sua volta un gioco a domino o a scatole cinesi a cui Farhadi ci ha ormai abituati con sapiente maestria e lucidità di analisi, persino ai confini della spietatezza, con un sottofondo di dolore silenzioso, come quella lacrima che scende sul volto della moglie in coma di Tahar Rahim nel dedalo di intrecci etnici, etici, psicologici ed emotivi de Il passato.
La violenza sposta completamente l’asse percettivo dentro e fuori la realtà dei personaggi, dopo che il regista ha imbastito nei loro confronti una lenta e abile trama di empatia, presentandoli come belli, colti, solidali (Emad aiuta un ragazzo con problemi psichiatrici durante il crollo del palazzo, incurante della sua incolumità), amati e rispettati , come Emad dai suoi studenti o entrambi riconosciuti leader per talento e carisma della compagnia teatrale, dove interpretano la tragedia americana di Willy Loman e moglie in Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, testo requiem dei falsi e labili valori su cui l’American Dream ha costruito il proprio impero di manipolazione e coercizione, popolato di individui soli, impauriti, frustrati, impotenti.
Uno dei testi più significativi e universali del teatro naturalista del ‘900 diventa lo specchio scuro dentro il quale Emad e Raana vedono trasformare se stessi nei fantasmi sbiaditi di un altro sogno di emancipazione, uguaglianza e fiducia e la loro relazione, dilaniata dall’ossessione non magnifica di lui che vuole scovare e punire in maniera esemplare l’aggressore e dall’ambigua eppure tenace volontà di lei di rimuovere, far sparire le tracce, non parlare, non denunciare.
Come in About Elly (la sparizione in mare di un ragazza dal passato poco chiaro in un gruppo di persone della borghesia iraniana durante una vacanza), l’omissione, la mancanza e l’indeterminatezza delle informazioni si sposta su un piano esistenziale. Le domande sulla propria identità, come singoli e come coppia, implicitamente sollevate dai comportamenti di Emad e Raana, trovano estensione ed eco nell’Umanità: in quella raccontata da Miller dall’altra parte dell’Oceano o rappresentata dal mare in cui annega Elly, oppure nella sconsolata consapevolezza di essere intrappolati in un individualismo serrato, feroce, spaventato, incapace di comunicare con l’altro a prescindere dalla possibilità di avere più strumenti culturali o sociali, perché non c’è differenza tra l’infernale nido di incomprensione, rancore e disperazione dallo sguardo attonito e impotente dell’infanzia, presente anche ne Il cliente come contrappunto tenero alla crescente tensione e insofferenza.
Tutto si riduce nel soddisfacimento di un bisogno nevrotico, di un falso movimento di affermazione individuale, per Emad nell’incontrollata progressione o meglio esplosione delle contraddizioni interiori fino a raggiungere affondi di sadismo, per Raana nella necessità di essere vista come “vittima” dal marito, abbandonandosi ad una rassegnazione e a un’indolenza che alimenta il solito circolo vizioso: rabbia- frustrazione-smarrimento.
E nel finale all’interno della sala trucco del teatro, persi nella loro trasformazione nei tragici coniugi Loman e rigorosamente ripresi con due piani medi separati da Farhadi, sembra ribaltarsi il senso del toccante monito pronunciato da uno dei personaggi di About Elly: non c’è più tempo per finali amari ma solo per amarezze senza fine.