di Giovannella Rendi / Tornare al proprio piccolo paese d’origine, da cui si è fuggiti con orrore appena possibile, non sempre è una decisione saggia. Bene che vada si rimpiange la gioventù perduta, la semplicità delle piccole cose (leggi: noia e squallore che ti avevano fatto scappare), la solidarietà e l’umanità della provincia che in città si perdono (leggi: pettegolezzi e maldicenze di gente annoiata e frustrata). Ci si chiede se forse non sarebbe stato meglio sposare la fidanzatina del liceo, aprire un negozio di ferramenta nella strada principale e tessere un elogio della quotidianità che nemmeno Thornton Wilder in Piccola città o i film natalizi di Frank Capra. Se invece va male, ed è invece questo il caso, ti ritrovi a rimpiangere semplicemente di averci rimesso piede, nel luogo dal quale sei scappato, e speri di uscirne vivo.
È il caso dello scrittore Daniel Mantovani che annoiato dal suo successo, bloccato dal premio Nobel per la letteratura, da lui accettato con un discorso di rara arroganza , dopo il quale non è più riuscito a scrivere una riga, annulla prestigiosissimi impegni per accettare l’invito a tenere un ciclo di incontri nel suo paesino d’origine Salas in Argentina, da Barcellona dove vive ormai da quaranta anni. Perché? “Non si sa se sei più ingenuo o narcisista” gli dice chiaramente la sua ex fidanzata nel frattempo risposatasi con il suo migliore amico. Perché Mantovani, infatti, se da un lato è la gloria locale da portare in trionfo come una statua della Madonna (sul camion dei pompieri accanto alla reginetta di bellezza locale), è anche uno che ha fatto la sua fortuna sfruttando proprio la sua “piccola città, bastardo posto” (come cantava Guccini della sua). Scopriamo infatti non solo che i numerosi romanzi dello scrittore sono tutti ambientati a Salas e ripercorrono le grottesche gesta dei suoi abitanti, ma che questi ne sono assolutamente consapevoli e che sono disposti a perdonare Mantovani solo se reciterà per loro la parte della gloria locale, una figura demiurgica che doni lustro a tutti loro e che espii la sua fuga di gioventù prestandosi ad una serie di giochetti locali. Come insegna anche Dürrenmatt, se torni all’ovile o lo fai per vendicarti o qualcuno si vendicherà su di te: Mantovani è ingenuo ma soprattutto narcisista (per scrivere servono carta, penna e vanità, dice non a caso) e questo personaggio cristologico e salvatore gli calza inizialmente a pennello, si commuove a vedere la video-biografia trash realizzata dai concittadini, si presta a interviste nella televisioncina locale interrotte da grotteschi spot pubblicitari, sentendosi generoso e umano ma in realtà coccolando il suo ego con cinismo e spietata condiscendenza.
Scoprendo gradualmente il nido di vipere sotto la superficie grottesca e un po’ patetica del calendario di festeggiamenti e iniziative a lui dedicati (ma non era proprio dal nido di vipere che eri scappato?), comprende finalmente la commistione di violenza, sesso, odio che impasta l’aria locale e che trova una comoda valvola di sfogo contro il figliol prodigo che ha la faccia tosta di tornare a casa. Il progetto di riscrivere il passato a colori rosa e probabilmente la tacita intenzione di sfruttare qualche altra vicenda locale per superare il blocco della pagina bianca, si scontrano con l’astio che cova sotto la cenere contro di lui ma soprattutto con il fatto che rischia di ritrovarsi la semplice pedina di un gioco che non capisce: non gli resta che un’illusione di ribellione con ipocriti quanto inopportuni moralismi scaricati proprio contro i pochi innocenti e evitando prudentemente lo scontro con chi gira armato.
“L’unica cosa che mi manca per la gloria definitiva è la morte” dichiara soddisfatto ai quattro gatti che vanno a sentire il suo ciclo di conferenze , in cui tromboneggia su arte, vita e letteratura. E dato che a Salas arte, vita e letteratura sono (per colpa sua) strettamente connesse, certe frasi sarebbe meglio non pronunciarle…
In un immaginario viaggio nel cinema argentino di qualche anno fa, Il cittadino illustre si potrebbe dire che cominci con l’idillio paesano de L’ultimo cinema del mondo di Alejandro Agresti e finisca nelle atmosfere putride e sensuali de La ciénaga di Lucrecia Martel. Presentato in concorso all’ultimo festival del cinema di Venezia dove è stato dato immediatamente per possibile vincitore fino a quando non è stato battuto sul finale da Lav Diaz con The Woman who left, il film si è portato comunque a casa la meritata coppa Volpi per il bravissimo protagonista Oscar Martinez, vero e proprio caleidoscopio di espressioni e personalità coesistenti, vittima e carnefice, capace di fare le fusa all’interlocutore (e allo spettatore) per carpirne la fiducia e subito dopo di rivelarsi diabolico Mefistofele pronto a vendersi l’anima per il successo. I due registi Mariano Cohn e Gastón Duprat giocano abilmente con il loro passato di produttori e registi televisivi (grazie all’uso di un’estetica volutamente dimessa) e tornano a fare satira acuminata sul mondo della creatività già stigmatizzato brillantemente in El artista (2008) e a metterci in guardia sulla spirale di violenza che si può scatenare da un piccolo avvenimento, come in El hombre de al lado (2009).
Brillante Giovannella. Piccolo gioiello questo film, d’accordo con te. Notevole anche l’intreccio dei piani narrativi e la frase finale che davvero non si può non condividere: non esistono verità, esistono solo interpretazioni.