di Luca Spanu/ Una significativa rassegna si è tenuta presso la Sala Trevi nei tre giorni culminati con 29 aprile, per nove opere di un documentarista di elevato spessore tecnico-formale, quanto contenutistico : Erik Gandini.

Titolo della retrospettiva, curata da Floriana Pinto di BlueDesk : LA CREAZIONE DELLA REALTA’.

Sette docufilm di circa una ora realizzati dal 1994 al 2017, un cortometraggio di 17’ del 2015, la rinomata pellicola di 88’ presentata a Venezia 2009 e ora in chiusura di rassegna dal titolo : Videocracy. L’importante è apparire.

L’autore-regista, brillante persona in sala per le tre sere e anche oltre (per un ulteriore commento ‘postvisione’ di Videocracy), si definisce italiano al 100% e svedese al 100% (per un totale di 200, lui rimarca). Di madre svedese e padre italiano, dalla natia Bergamo’67 si è poi trasferito in Svezia ove stabilmente vive e lavora, dai 19 o giù di lì. Scuola di cinema in Svezia, opere andate in onda alla tv di stato svedese, coproduzioni con la danese Zentropa di von Trier, festival e riconoscimenti ad ampio spettro.

Per cominciare dalla sintesi – sempre improba – delle qualità numerose, lo si potrebbe (tentar di) definire un freddo ma appassionato ma coinvolgente ma sperimentatore antropo-sociologo delle immagini, dei temi come delle figure, delle luci e delle parole – spesso queste ultime sostituite da musiche, sguardi, voce sua propria di commento nella pastosa liquida lingua di Svezia.

Premessa necessaria (e forse sufficiente) da lui medesmo posta è che la realtà si ‘crea’ in quanto il docufilm gandiniano non ha pretese giornalistiche, non intende inseguire verità obiettive ma offrire uno sguardo emozionato e personale sulle situazioni e sui personaggi – mai essi centrali in un piano d’opera non ‘character driven’ ma corale, risultante di voci quanto di silenzi, di luci e colori e musiche sincronizzate non meno che di paesaggi o di folle o di sguardi intensi in camera, di risposte dirette a domanda.

Non di investigazione si tratta, anche quando si scava e ci si interroga e si telefona, si bussa, si accede a documenti o immagini per fatti controversi o ancora misteriosi. Sempre presente è la curiosità verso l’altro da sé, il diverso, lo strano, l’aberrante dai propri interessi e visuali di vita.

Un tono neutro e quasi trasognato riesce a mantenere Erik voce in campo o voce ‘over’, che parli con i giovani della Raja Sarajevo storditi dalla guerra tuttintorno,  con gli elusivi o mentitori ufficiali superiori o generali americani in Gitmo, con il quasi surrealmente addolorato Ciro Bustos o il tronfio mentitore Regis Debray in Sacrificio, con l’eroico divertito Chirurgo Ribelle Erik Ericksen – che opera in Etiopia in assoluta liberatoria creativa missione solidale.

La trama non si nutre solo di parole, ma di temi e di girato abilmente montato e sincronizzato con esiti a volte sperimentali, per i leader del ‘mondo libero o quasi’ billgates-bush-chirac-blair-putin che labialeggiano parole a ricostruire frasi surrettiziamente angloaltermondialiste in Surplus , a contrappunto dello scandito risonante spagnolo di Fidel che arringa un oceano di spartane bandierine biancorossazzurre e lo rassicura sul fatto che Cuba non incoraggia il consumo (vuoto o pieno che sia, come lo stomaco della giovane cubana in folleggiante parentesi gastronomico-nsumista, narrata quasi novello Zanni di Dario Fo).

Si susseguono elevatissime testimonianze di profondo pensiero e azione ( Zygmunt Bauman che tratta di [in]felicità ‘assistita’ svedese, Bustos che rievoca le parole del Che Guevara sulla ‘morte-regalo in vita’ del rivoluzionario, Ericksen che raffronta il chirurgo ortopedico svedese che è stato e la forza di natura onnichirurgica da 400 consulti e operazioni ‘pro die’ che è diventato, al seguito della dolcissima moglie Sennait, svedese di adozione non avendo abbandonato il fratellino che fu affidato a svedesi dalla poverissima etiope famiglia) e vuotaggini assolute irritanti nichilistico-criminaleggianti (torturanti addirittura, per ammissione del regista in sala, giorni e giorni per esigenza di ripresa mantenutosi al seguito di Lele Mora e Fabrizio Corona, come del ‘wannabe’ valligiano bergamasco tarantolato e del Mediaset ‘subanimal’ Spirit).

Curiosità e umile interesse anima il Nostro, che pure (proprio perché) viene da una società nordica evoluta e di sé ripiena quale quella svedese, che assiste dalla culla alla bara nel vero senso, anche quando nella bara calino le spoglie dello svedese sui quattro deceduti che muore solo e senza parenti o affetti che lo circondino (il 48% degli svedesi vive da solo, siano giovani o single‘emancipati’ o anziani ‘indipendenti’ e di necessità fieri del proprio spazio vitale solitario). La Teoria Svedese Dell’Amore segue anche le ispezioni dei funzionari pubblici alle case dei deceduti solitari, spesso scoperti dopo mesi o anni, repliche scandinave del solerte impiegato comunale inglese di Still Life visto al cine. Segue anche le fattezze e le parole smarrite di alcuni giovani che protestano infelicità nella sicurezza e ricercano il contatto umano corporeo e verbale in boscosi ‘santuari’ di affetti e condivisione tra pari.

La curiosità verso gli altri e le loro idee e pratiche di vita (ci dice – in sala – il regista) non dovrebbe mai abbandonare soprattutto chi abbia raggiunto i vertici del benessere materiale, che talvolta egli baratta o spesso baratterebbe con gioia per la condivisione e la gratitudine suscitata da un lavoro meno burocratico, impastoiato dalle procedure (mediche nel caso) e calato in una società ricca e ‘autosufficiente’ fino a imporre l’ autonomia fisicamente separata dagli altri come fine sociale supremo, fino a produrre uomini che non provano gratitudine verso altri uomini in quanto sempre serviti dallo Stato e per lo Stato efficientista scandinavo. Welfare System individualista che il Sociologo moderno per eccellenza, Bauman, ritiene abbia posto le basi del più selvaggio autoreferenziale consumismo.

Il Cosmopolitanism quale rispetto e attrazione verso il mondo fatto di diversi da noi rappresenta antidoto alla intolleranza e all’incultura che ci affliggono, rimedio alla paura e insoddisfazione costante dell’ homo consumens baumaniano, liquefatto nei suoi desideri e mobile incostante, granitico nelle sue (in)certezze.

Una società di consumatori volubili e deprivati di cultura, spirito critico e valori produce fatalmente anche leader scaltri opportunisti e spacciatori di sogni, soprattutto televisivi, siano essi giovani-vecchi o vecchi-giovani, siano essi italici o americani. Deve esservi una via di negoziato tra l’ideologo primitivista che propugna la distruzione dei beni materiali e tecnologici e il becero consumare per crescere per consumare in infinita spirale. Tra i moti di Genova 2001 ripresi nei brillanti colori super16 e la spaventosa tetraggine delle espressioni facciali di Corona ‘moderno Robin Hood che ruba ai ricchi per sé stesso’ passa la enorme differenza che di fatto separa il viso aperto e dubbioso di Erik regista e la mutria ammiccante del Berlosco e suoi viscidi figuranti  ancora oggi in Loro1 rivista. In mezzo a Loro .. noi quasi tutti e il Gaberiano terrificante ‘B. non in sé, ma in me’.

Una città cosmopolita non è fatta di abitanti tutti cosmopoliti, ma buon inizio sarebbe avere rappresentanti gestori che si spendono in nome di valori condivisivi, neri o bianchi che essi rappresentanti siano (come quei mostrati alla NewYorkPublicLibrary da Wiseman in Ex Libris, in sala in questi giorni).

Struggente invece il caso di chi abitante del mondo e parlante di lingue varie distanti non può essere, suo malgrado. Sono gli Amerasians nati da madri vietnamite e padri fanti o Marines americani. Senza colpa, non soffrono soltanto perché il padre è dal tempo scomparso e irreperibile, ma perché non riescono a compensare per via culturale o professionale quanto la affettività familiare ha loro negato. Si sentono non solo fisicamente diversi e respinti. in terra di nascita vietnamita e in terra (solo per alcuni) di accoglienza basata su ritmi di vita o lavoro estranei.

I ‘brillanti’ nuovi antichi leader e giovani smarriti sono frutto della società edonista televisiva globalizzata ‘socialtech’ o anche del disprezzo per le culture altre o a sinistra ‘datate’, della svalutazione del pensiero critico e problematico sulle cose? Pensiero che le istituzioni al pari delle famiglie non riescono a difendere e rafforzare e a coniugare con la comprensione dell’Altro, in sudEuropa come in nordAmerica, tra gli amorali familisti come tra i tecnocrati e burocrati dagli occhi di ghiaccio?

Ai posteri la più che ardua. Solo che i posteri (e i postumi e i postremi) sono già qua.

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